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Channel: Donatella D’Angelo – Il Fatto Quotidiano

Firenze, si resta abbagliati dalla bellezza della Certosa di Firenze e di Palazzo Strozzi

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Quando si dice restare abbagliati dalla bellezza. L’ho capito e sperimentato pochi giorni fa, in senso metaforico/spirituale e in senso reale/estetico, in due occasioni a Firenze: alla Certosa e a Palazzo Strozzi. Si è infatti aperta al pubblico, soprattutto agli amanti del turismo culturale, la Certosa del Galluzzo, il sogno di eternità o meglio di infinito di Niccolò Acciaiuoli che, nel 1310, volle sul colle più alto di Firenze, il Monte Acuto, il suo “capolavoro” in modo tale che fosse visibile a tutti e da tutti, in specie chi fosse diretto a Siena.

Non solo banchiere, ma anche politico: divenne gran Siniscalco del Regno di Napoli con una grande ambizione, o forse desiderio di redenzione, sino a portarlo a dedicare un Monastero a San Lorenzo e creare anche un’appendice della dimora fiorentina, con una casa studio centro di formazione per giovani. E così nacque anche il Palazzo Acciaiuoli, ricco di opere d’arte, tra cui quelle di Pontormo, che qui si rifugiò durante la peste, Ghirlandaio, della Robbia.

Il complesso che si snoda tra parte conventuale, residenziale e la chiesa è dotato di una particolarità: le celle a corolla, come unità autonome autosufficienti che suscitarono ammirazione e stupore in Le Corbusier che ne trasse ispirazione per le sue opere. Il tutto in una natura maestosa, tipicamente toscana, dove il verde cupo fa risaltare ancor più la pietra bianca e rosa della muratura del complesso, estratta dal monte stesso.

Il Monastero e il resto degli edifici eretti, poiché situati a vari livelli, non solo comportavano problemi per i monaci e conversi (laici molto pii) più anziani, ma anche per i visitatori, cosicché Provveditorato alle Opere Pubbliche e Soprintendenza della Toscana hanno creato con un intervento ardito un ascensore all’interno che ben si inserisce nel contesto senza deturparne la bellezza. È stato anche presentato un docufilm sulla storia della Certosa che ne narra le vicissitudini storico-artistico-politiche.

Altra bellezza da abbagliare è la mostra su Olafur Eliassion a Palazzo Strozzi, a cura di Arturo Galansino che non smette mai di stupirci con l’arte contemporanea. Dopo un ritorno al classico con la riuscitissima mostra su Donatello, una delle più visitate nel 2022 – più di 150.000 visitatori e premiata a Londra con l’Apollo Award come il più bell’evento dell’anno. La genialità dell’artista danese/islandese sta nel comunicare con la luce, quasi un desiderio scatenante, inconscio e paradigmatico di chi per nascita e residenza con il sole poco ci convive.

Il visitatore è protagonista a volte con la sindrome di Narciso, per il ricorso a moltitudini di specchi abbellenti, a volte con la sindrome degli acrobati del Circo Vertigo, con simulazioni di acrobazie aeree. C’è anche il metaverso e una serie di emozioni sensoriali, specie con la luce, che a tratti abbaglia e ipnotizza.

Il risultato è emotivamente coinvolgente ed esalta la severa architettura di Palazzo Strozzi. Nel cortile un’opera progettata appositamente e che posta ad otto metri di altezza, con un gioco di luci ed oscillazioni, crea un affascinante effetto moiré sempre diverso a seconda della visuale dello spettatore.

In sostanza i “pennelli” dell’artista sono i fasci di luce, i cavi metallici e gli specchi. È pertanto una mostra coinvolgente piena di luce, che abbaglia per la sua bellezza. Non trascurabile l’attenzione nei minimi particolari della Fondazione Strozzi per questo museo. Un ottimo servizio di guardaroba, il “fontanello” dell’acqua per la ricarica delle bottigliette, funzionali servizi igienici, ascensori decorati ad hoc per ogni nuova mostra e dispenser di igienizzante ovunque con tanto di salvietta per asciugarsi le mani. Piccole cortesie che rendono la visita ancora più gradevole insieme alla presenza di belle e giovani custodi.

Per cui in una pausa natalizia val la pena un viaggio rigenerante e purificante alla Certosa, un’oasi di pace e serenità, e al Palazzo Strozzi per l’incantesimo e la magia.

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Alle Scuderie del Quirinale in mostra il coraggio dei soprintendenti che salvarono le opere dalle grinfie di Göring e Hitler

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Concepita in epoca non sospetta, circa quindici anni fa, da un gruppo di funzionari delle soprintendenze che intendevano celebrare e far conoscere loro i colleghi degli anni 30, capaci, appassionati quanto intrepidi, la mostra “Arte Liberata” ha avuto il suo compimento alle Scuderie del Quirinale il 16 dicembre 2022 e si concluderà il 10 aprile 2023. Il coraggio e il senso dello Stato dei curatori, prestatori e sponsor va evidenziato per aver allestito, in modo eccelso, una mostra non facile che ha diverse letture. La possibilità di vedere insieme in due grandi sale capolavori iconici provenienti da tutt’Italia e dall’estero e conoscere un periodo particolare, in cui uomini e anche molte donne, operarono per la salvaguardia della bellezza.

Cito a memoria solo alcuni artisti presenti: Piero della Francesca, Luca Signorelli, Paolo Veneziano, Guercino, Lorenzo Lotto, Giovanni Bellini, Savoldo, El Greco, Il Veronese, Tiziano, Tintoretto, il Giorgione, Hayez e molti altri. Il bravissimo curatore Luigi Gallo, coadiuvato da Raffaella Morselli, afferma – e condivido in toto – che “il patrimonio artistico è stato il vero collante dell’unità nazionale, prima ancora del 1861″ e le caratteristiche e le molteplici “scuole” – aggiungo io – anche se diverse nei vari territori, non fanno che accentuare l’unicità della nostra Nazione. Un altro elemento da sottolineare è che è una mostra completamente statale: sede, dirigenza, curatori, allestitori e prestatori dimostrano quanto lo Stato può e deve funzionare in modo eccellente e che non esista un privato buono e un pubblico cattivo e viceversa.

A tal fine mi vengono in mente due casi di successo che confermano questa mia convinzione: la Fondazione Cosso di Miradolo a Torino, totalmente privata, che in questi mesi ha in esposizione Christo, e Palazzo Strozzi a Firenze, una fondazione pubblico/privata, dove il 22 gennaio si è conclusa, con un boom di visitatori, l’abbagliante mostra di Olafur Eliasson. Per approcciarsi a questa mostra alle Scuderie, unica nel suo genere, occorre infatti spogliarsi da pregiudizi e luoghi comuni apprezzando l’impegno della direzione e di tutto lo staff tecnico/scientifico. Un plauso particolare va agli allestitori che hanno creato una volutamente scarna ma evocativa scenografia, il legno grezzo delle mitiche casse che trasportavano i capolavori dalle grinfie di Göring ed Hitler.

Il percorso espositivo è emblematico. Inizia con il Discobolo Lancellotti comprato nonostante il veto dell’allora Consiglio delle Belle Arti grazie a una trattativa tra il proprietario, il principe Lancellotti e per l’appunto Göring. Come fondale c’è la foto inquietante di Adolf Hitler, sulla cui divisa al braccio, spicca la svastica che va a finire, volutamente, sulle natiche dell’atleta. Subito dopo si entra nella mostra vera e propria con un pannello interamente dedicato alla madre di tutte le leggi di tutela: la L.1089/39 o Legge Bottai, di cui ho scritto infinite volte anche qui. Bottai aveva come consulenti ascoltatissimi, Pasquale Rotondi, Emilio Lavagnino e Giulio Carlo Argan.

Sempre Bottai, il 31 agosto 1939 con la Circolare 131, impartisce disposizioni per la protezione antiaerea per far apporre il simbolo dei luoghi sensibili da non colpire, non solo ma nel 1940 vara una legge la 1041, per la protezione dei beni culturali in caso di guerra. Da quel momento inizia tutto: un susseguirsi di incontri frenetici, di trattative, di individuazioni di luoghi sicuri per mettere al riparo capolavori unici dopo le visite, che sembravano una ricognizione, di Hitler nei nostri musei.

Con pochi mezzi, ma con una ferrea determinazione, coinvolgono i fidati. Non per schieramento politico, ma per fede, per l’arte e la Patria. Rocambolesche le loro gesta e così lavorano insieme fascisti, comunisti, ecclesiastici, uomini e donne. Molte donne eccelse che furono premiate e promosse da Bottai in posti di comando. Mi piace ricordare Palma Bucarelli di Roma, che a 25 anni entrò alla Galleria nazionale d’Arte moderna per diventarne a 30 la soprintendente e in questo ruolo artefice dei salvataggi delle “sue” opere d’arte.

La Bucarelli fu l’antesignana delle donne in carriera che non rinnegano la propria femminilità: bellissima, iconica ed elegante. I suoi abiti sono diventati il simbolo della moda “made in Italy”.

Altre donne come la prima direttrice dell’Accademia di Brera, la milanese, a dispetto del nome, Fernanda Wittgens, che mise in salvo i capolavori in essa contenuti, prima del rovinoso bombardamento dell’8 agosto 1943 a opera degli inglesi, la Rai ha in programma un docufilm su di lei. Non meno intrepida l’astigiana Noemi Gabrielli, soprintendente a Torino e grande organizzatrice di mostre memorabili, che organizzò nel castello di Guglia, vicino a Modena un fortunoso trasporto di opere per poi spostarle su barconi di fortuna all’Isola Bella, per la disponibilità di Federico Borromeo che si era affrettato nel ’42 a richiedere al Podestà di Stresa di far apporre sul tetto delle sue proprietà, il famoso simbolo antiaereo.

Del lungo elenco di capolavori connotativi dell’arte italiana, di cui il solo Pasquale Rotondi ne salvò circa diecimila, solo ovviamente una piccola ma rappresentativa parte, circa 100, forse la più iconica è presente nella mostra. Non senza commozione, riconoscenza e orgoglio, il curatore Luigi Gallo ricorda dalla scrivania nella quale lavorava Pasquale Rotondi, il ruolo fondamentale di Urbino e della Galleria Nazionale delle Marche, prestatori della star della mostra, la Madonna con Bambino e Angeli detta la “Madonna di Senigallia” di Piero della Francesca, opera del 1474 e di molte altre.

Involontariamente un altro grande marchigiano, Gioacchino Rossini da Pesaro, che inaugura a Torino la stagione per i 50 anni della ricostruzione dopo i bombardamenti salvò con i preziosi spartiti nelle casse sistemate sopra ai quadri. Infatti i nazisti fecero aprire a campione alcune di esse e vedendo che c’era solo “carta” fecero partire il convoglio. Da non dimenticare la figura istrionica di Rodolfo Siviero, il mitico ministro plenipotenziario che conclude il percorso della mostra. La sua caparbia e spregiudicata azione di recupero dopo il 1945, lo porterà a usare tutti i mezzi per restituire all’Italia tanti capolavori, anche acquistati “legalmente” da musei esteri.

In ultimo mi piace ricordare il sontuoso, aulico contenitore, su progetto di Alessandro Specchi e Ferdinando Fuga, l’edificio proprio di fronte al Quirinale, che dismessa nel 1980 la sua originaria destinazione ha assunto nel 1999, con incarico di restauro e rifunzionalizzazione a Gae Aulenti, il suo miglior progetto, secondo il mio parere, quello di sede espositiva. Un affaccio dopo la visita, dalla vetrata della caffetteria, è la perfetta conclusione della visita per ammirare dal colle più alto Roma in tutta la sua bellezza.

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La ripresa del turismo culturale può avvenire solo se impariamo a salvaguardare i nostri beni

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Si è da poco conclusa a Milano, prima della Fashion Week, la 43esima edizione del Bit, Borsa internazionale del Turismo. Grande soddisfazione degli organizzatori che hanno confermato numeri quasi da pre pandemia. Molti buyers stranieri, specie nordamericani. Susanne Mozel, di Omega National Travel (Canada), afferma: “I clienti nordamericani conoscono molto bene l’Italia. Sono molto esigenti e ricercano offerte particolari in piccoli borghi o percorsi poco battuti. A Bit ho trovato proposte davvero uniche, come cenare sotto un vero vigneto o esplorare i passaggi segreti di un castello che i nobili usavano per muoversi senza farsi notare dai sudditi. È questo tipo di esperienze capaci di affascinare che fa la differenza”.

E l’enogastronomia è un dato ormai acquisito che fa parte di pressoché tutte le esperienze di viaggio. Il turismo enogastronomico si è candidato a rappresentare a tutti gli effetti una forma di turismo culturale attraverso la conservazione e la valorizzazione dei territori agricoli e vitivinicoli destinati a delineare lo scenario naturale, proponendo un modo colto di viaggiare associando la degustazione di vini, prodotti tipici e talvolta di piatti locali alla visita ad aziende vinicole e agroalimentari e anche musei.

Mi piace qui ricordare il Tempio del Brunello a Montalcino e il Museo dei Medici a Firenze, dove oltre ad apprezzare la storia del casato si possono degustare le bottiglie delle terre medicee.

Questa tendenza di unire arte e cibo avviene non solo nelle località rurali, ma anche nelle città d’arte. Secondo Cst per Assoturismo Confesercenti, basato su interviste a oltre 1.200 imprenditori effettuate nelle principali 100 città d’arte italiane, la ripresa del turismo è stata guidata proprio da queste ultime, dove le visite hanno visto una netta accelerazione. Tra giugno e agosto i turisti nelle nostre città d’arte sono stati 27,4 milioni, il 24,6% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, registrando l’aumento più rilevante tra tutti i segmenti di offerta turistica superiore anche alla media complessiva del settore (più 14,3%).

A spingere la ripresa del turismo culturale è stata soprattutto la domanda straniera, con oltre 17,5 milioni di presenze (il 34,6% in più rispetto al 2021), seguita da quella italiana, per un totale di oltre 5,5 milioni di presenze (più 10,2% rispetto al 2021). Si tratta di numeri molto positivi, anche se ancora lontani dai livelli pre pandemia del 2019, quando i visitatori delle città d’arte erano stati 44 milioni.

Secondo le stime elaborate dallo studio, la ritrovata vitalità del mercato sta avendo ricadute positive sull’intero sistema paese. Il turismo culturale, tra gennaio e agosto 2022, dovrebbe aver generato 9,1 miliardi. Sono circa 196 milioni le presenze turistiche nel trimestre estivo luglio-settembre 2022, il 4,7% in meno rispetto alla cifra record pre pandemia di circa 205 milioni raggiunta nel 2019.

Sempre secondo Assoturismo gli eventi, i festival e i concerti svolgono oggi un ruolo fondamentale nel turismo culturale ed enogastronomico. Infatti offrono ai turisti ulteriori motivi per visitare una destinazione al di là del prodotto culturale regolarmente offerto e danno modo di affiancare i valori sociali, locali e paesaggistici alla buona gastronomia depositaria della cultura del luogo. Solitamente, le persone che si dedicano all’enogastronomia e al turismo culturale hanno un livello sociale ed economico medio-alto e non sono solo appassionati, ma anche consumatori. Pertanto sono una grande risorsa economica e contribuiscono al Pil dell’Italia.

C’è un però. La maggior parte delle nostre città con musei unici, offerta alberghiera di buon livello, esercizi ottimi e commercio di qualità sono deludenti sotto l’aspetto della qualità urbana: a Roma, Firenze, Napoli, Milano, Palermo e Torino le strade sono sporche, dissestate, scarsamente illuminate e con mezzi pubblici inefficienti. Parlando pochi giorni fa con alcuni turisti francesi in visita ai musei della mia città, Torino, ho constatato una certa insofferenza per i marciapiedi sconnessi e lordati da deiezioni canine.

Le Amministrazioni locali che annunciano con enfasi i numeri esaltanti del turismo, specie legati a eventi, dovrebbero tener conto di questa criticità mai affrontata e risolta. I numeri di viaggiatori di medio-alto livello potrebbero portare grandi benefici. Al netto anche dei locali e del turismo popolare, il decoro urbano infatti è imprescindibile sia per turisti che per residenti.

Altro fattore: il turista colto che viene in Italia vuole trovare il “genius loci”. Desidera ritrovare monumenti restaurati, ma non manomessi da interventi snaturanti. Desidera proseguire la sua esperienza alla Grand Tour, in hotel che richiamino il bel vivere, per cui gli operatori del settore dovrebbero investire in edifici storici dismessi dalle loro funzioni, ma evocativi di epoche, specie per i nord americani, del tutto sconosciute.

I primi nove mesi del 2022, come si è già evidenziato, hanno segnato un forte recupero per il settore turistico, ma le presenze dei clienti negli esercizi ricettivi sono circa 39 milioni in meno rispetto al 2019 (-10,3%). Vengono prescelti hotel con forti connotazioni storiche, ma ne mancano, rispetto alla potenziale richiesta, almeno duemila. Il recupero dei tanti edifici demaniali dismessi, con incentivi agli operatori del settore, costituirebbe un volano per l’economia maggiore dei vari superbonus e meno oneroso per lo Stato. Si metterebbero in moto molte professionalità, oltre di quelle dell’edilizia, per restituire all’Italia tutta la sua bellezza.

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Piemontesi alla conquista di Firenze: a Palazzo Strozzi due personalità artistiche diverse si uniscono nel segno del contemporaneo

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E così i piemontesi riconquistarono Firenze. Dopo i Savoia, che vi misero la capitale dal 1865 al 1871, non senza lasciare un loro segno distintivo a Palazzo Pitti, come residenza reale, una nuova coppia si è insediata nel Granducato di Toscana. Si tratta di una legame artistico tra due personalità diverse, ma simili unite dalla grande passione per il contemporaneo. Uno è Arturo Galansino, effervescente direttore di Palazzo Strozzi, che alterna con spericolata disinvoltura mostre “classiche”, come quella su Donatello, ad altre dirompenti come quelle su Jeff Koons e Olafur Eliassion, quest’ultima sfolgorante e con opere degne delle cattedrali gotiche.

L’altra è Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, una signora torinese molto bon ton come impatto visivo, pur osando con vestiti, colori vistosi e unici monili. In trent’anni di attività, intuito e coraggio, è diventata scopritrice di talenti, mecenate e collezionista. È la risposta privata al noto Museo di Arte contemporanea di Rivoli, diretto dalla energica Carolyn Christov. A Patrizia Sandretto si deve “l’invenzione” di Maurizio Cattelan e di altri emergenti esposti dapprima nella dimora di famiglia a Guarene (Cuneo) poi a Torino, Venezia e ora nel palazzo più iconico di Firenze: Palazzo Strozzi.

Questo Palazzo fu voluto fortemente da una delle famiglie fiorentine più importanti, rivali de i Medici, tanto da essere esiliata nel 1434 insieme alla famiglia Albizzi. Filippo Strozzi, tornando nella sua città otto anni dopo, diede l’avvio nel 1489 alla costruzione del Palazzo che doveva essere una sfida e una vendetta nei confronti de i Medici. Volutamente una competizione con Palazzo Medici, simile come composizione architettonica, con gli stessi materiali, ma decisamente più grande e centrale.

Baricentrico, è tale da determinare una nuova “urbanistica”: doveva essere di rottura e stupire. Filippo morì nel 1491 non riuscendone a vedere il completamento, ma questo Palazzo, sinonimo di “vendetta” e orgoglio, riesce ancora a essere catalizzatore di sorprese da quando è diventato sede espositiva. La meglio gestita in assoluto, come accoglienza, percorsi, segnaletica, hostess, ufficio stampa, caffetteria e book shop. Ha il privilegio di trovarsi nella zona più esclusiva e più glamour di Firenze, per cui era quasi inevitabile far diventare il Museo un luogo alla moda. E così è stato per l ‘inaugurazione della collezione di Patrizia Sandretto, dove invece di noiosi discorsi ufficiali si è trasformato il tutto in una festa in un momento ludico di gioia collettiva.

È anche un modo per metabolizzare opere non facili come quelle di Cattelan, al netto di installazioni divertenti come le spazzole rotanti dell’auto lavaggio di Lara Favaretto, cui nessuno si è sottratto, improvvisandosi vettura, per lo meno i più impavidi. Altre opere come la Sirena sovrappeso di Thomas Schutte, che con la sua plasticità, ben si sposa con lo spazio rinascimentale.

Così la mostra Reaching for the Stars. Da Maurizio Cattelan a Lynette propone una rassegna delle stelle dell’arte di oggi attraverso opere dei più importanti artisti contemporanei italiani e internazionali oltre Maurizio Cattelan, Cindy Sherman, Damien Hirst, William Kentridge, Berlinde De Bruyckere, Sarah Lucas e Lynette Yiadom-Boakye.

Una nuova avveniristica installazione nel cortile rinascimentale, Gonoko della polacca Goshka Macuga che pur essendo molto impattante riprende le cromie del Palazzo oltre a rivestirsi di molteplici significati: il viaggio dell’arte verso il futuro, la monumentalità dell’arte, la paura e la curiosità. Collocata provvisoriamente nella Corte d’onore di Palazzo Strozzi avrà, finita la mostra, la sua definitiva sede sull’isola di San Giacomo a Venezia. Un altro tassello per Palazzo Strozzi, per Firenze e per la riconferma della sua vocazione all’umanesimo e alla imperitura e immensa bellezza.

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Milazzo, cittadini contro il taglio degli alberi in piazza Marconi. Dopo la stazione storica, un altro scempio alla città

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Gli alberi sono un “monumento” da tutelare non meno di un edificio storico di pregio, di un dipinto, sono quadri naturali, affreschi del paesaggio così come recitava la Legge 1497/39 sulla protezione delle bellezze naturali (GU n. 241 del 14-10-1939).

Sono soggette alla presente legge a causa del loro notevole interesse pubblico:

1) le cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale o di singolarità geologica;
2) le ville, i giardini e i parchi che, non contemplati dalle leggi per la tutela delle cose d’interesse artistico o storico, si distiguono per la loro non comune bellezza;
3) i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale;
4) le bellezze panoramiche considerate come quadri naturali e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze.

Viceversa in virtù di un preteso e pretestuoso progresso tecnologico, l’Amministrazione di Milazzo ha deciso di cancellare la memoria storico/naturalistica di Piazza Marconi, centralissima, dove vi è anche la pregevole ex stazione del 1890, un’oasi ambientale per i suoi abitanti, tenuto conto delle pregevoli e rigogliose specie arboree presenti.

Già la dismissione della stazione storica, baricentrica rispetto alla città e centro propulsivo, oltre che motivo di orgoglio dei milazzesi (o mamertini, che dir si voglia) per via delle ampie e sontuose sale che la facevano essere tra le più belle della Sicilia, suscitò un diffuso malcontento. Al suo posto, molto decentrato, un anonimo e decontestualizzato edificio inaugurato nel 1991, vissuto come un ulteriore sfregio alla città. C’è da rimarcare che, dopo l’Unità d’Italia, vennero costruiti pregevoli teatri ed altrettanto pregevoli stazioni, forieri di vitalità.

Il motivo distorto è sempre lo stesso: il degrado della piazza, come non fosse sufficiente il restauro della stazione e la pulizia delle aree verdi, oltre all’installazione di telecamere di sorveglianza. Così moltissimi cittadini si sono mobilitati, più di 200 domenica 19 marzo, insieme ad Associazioni ambientaliste, in primis Legambiente, hanno scritto a Tutela Italiae, il network della Cultura fondato da Angelo Argento; una delle animatrici della protesta, Marinella Ficarra, mi ha coinvolto per fermare questo ennesimo atto di alterazione dell’ambiente storico esistente.

Purtroppo non è un caso isolato: si distruggono lungomare esistenti, costruendone dei nuovi, rinominandoli water front, si manomettono edifici storici, senza un motivo ben preciso e funzionale, solo per lasciare un segno della contemporaneità. La vanità di molti architetti, specie le cosiddette archistar, porta a disastri irreversibili. E così mi sforzo da trent’anni nel sostenere che ci può essere innovazione nella conservazione; ovviamente edifici e parchi storici devono essere adeguati a nuove esigenze e nuove tecnologie ma non per questo devono essere distrutti ed alterati.

L’amministrazione comunale ha promesso “panchine intelligenti per la ricarica di smartphone e pc”, come se non fosse possibile attivare tale servizio, lasciando al loro posto alberi secolari e ripristinando la bella fontana storica del 1937. Come ho scritto recentemente, il turismo culturale è in forte ripresa ma gli appassionati, che tra l’altro producono un significativo Pil, non desiderano trovare un’Italia manomessa nei suoi caratteri connotativi.

Si sono mobilitati tutti: i giornali locali ne hanno dato ampio risalto, cittadini, associazioni, istituzioni culturali hanno scritto alla soprintendenza, che ha risposto segnalando che l’area è interamente tutelata. Adesso però il tempo stringe, tenuto conto che tutta la zona interessata è stata transennata per iniziare i lavori di abbattimento degli alberi, in virtù di un “restyling” della piazza.

Speriamo che anche questo pezzo d’Italia non ceda di fronte alla protervia e l’amministrazione lasci, anzi restituisca, questo spazio alla sua originaria bellezza.

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‘Dante, l’esilio di un poeta’ ci fa scoprire l’Italia. Un’idea geniale per un turismo culturale alternativo

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Concepito per i 700 anni di Dante, compromessi parzialmente dalla pandemia, ha voluto offrire una nuova immagine del Poeta fuggiasco, ma indomito. È un lungo percorso tra luoghi immutati nel tempo, borghi, rocche, visitati dal regista turista e dal giovane fotografo che insegue inutilmente innamorato una novella Beatrice. Un cantore inatteso che declama le terzine dantesche, nelle vesti di un senzatetto, interpretato da un bravo Gigi Savoia.

C’è molta architettura e natura in questo docufilm, anzi sono il filo conduttore per raccontare un Dante inedito che intrecciava relazioni diplomatiche con i vari casati per avere protezione e riparo da Firenze che l’aveva condannato a morte. Un esilio dorato, si direbbe, in castelli, in corti ricche generose e sontuose la cui presenza però è tramandata oralmente e non con tracce documentali.

Il Poeta non doveva lasciare il segno dei suoi passaggi essendo un ricercato e questo ha scatenato nel tempo una ridda di polemiche e rivalità tra Comuni che si contendonono l’autenticità della sua permanenza. “Il nostro è stato un viaggio reale e visionario che, partendo dai luoghi e attraversando alcune delle pagine più significative della produzione dantesca, vuole provare a stimolare nuove prospettive, suggestioni e incantamenti” spiega il regista Fabrizio Bancale.

C’è sicuramente riuscito raccontando con una splendida fotografia e le testimonianze non tediose e didattiche di illustri dantisti e personaggi dei luoghi. Così si spazia tra la Garfagnana, la Lunigiana, presso i Malaspina, dai nobili e rassicuranti Conti, una delle casate più antiche al mondo, poi il Casentino, quindi Verona, ospite di Cangrande della Scala, Padova e Ravenna dove si conclude il viaggio.

Non solo è piacevole e ben interpretato, ma si propone anche come un’idea geniale per un viaggio a tema per le prossime vacanze: seguire le mete di Dante esiliato. È senz’altro un modo di pensare il turismo culturale in modo alternativo, come faccio io da anni. Le abbazie, i grandi pittori, gli architetti del Rinascimento e altri temi, un motivo in più per riscoprire l’Italia in tutta la sua bellezza.

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Per le città storiche mala tempora currunt: largo al cemento, conservazione e riuso non esistono

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Lo so, rischio di essere ripetitiva ma mala tempora currunt per i beni culturali. Amministrazioni di destra, di sinistra, di centro, vivono come una calamità naturale il fatto di avere nel proprio territorio edifici storici, parchi secolari, musei. Scatena viceversa il loro desiderio di potenza meglio onnipotenza, anzi la libido, inaugurare mega complessi, enormi scatole di cemento, piuttosto che recuperare l’esistente.

L’Italia è diventata il paradiso della GDO, delle multinazionali che aprono, con una frenesia inaspettata, centri commerciali, a discapito di botteghe storiche, patrimonio culturale di città, oltre che presidio di sicurezza. Ci si sta avviando verso la desertificazione dei centri storici, città intere, vie, piazze di piccole, medie, grandi città sono buie con saracinesche abbassate, un ambiente triste e surreale. In inverno già alle cinque del pomeriggio, è un azzardo passarci, tenuto anche conto che le amministrazioni comunali, per un presunto risparmio energetico, accendono sempre più tardi e con luci fioche.

I fautori di questi nuovi mega complessi commerciali, che coincidono con quelli delle Grandi Navi, almeno fra le mie conoscenze, sostengono che portano lavoro: sì, ma ne tolgono ad intere famiglie del piccolo commercio. Inoltre gli ingenti investimenti per realizzare queste opere potrebbero essere indirizzati al recupero di edifici demaniali pregevoli ma fatiscenti. Riconvertiti anche per usi diversi dall’originario potrebbero essere utili senza cementificare e cambiare lo scenario delle città.

Dovrebbe essere la politica a dare degli indirizzi in questo senso e non solo permessi a costruire nuovi complessi sempre più energivori, contrariamente a quanto viene fatto credere. Il riuso dell’esistente vale non solo per i centri commerciali ma anche per Teatri, Centri espositivi, Scuole, Ospedali, di cui ho già scritto. Dismettendo l’esistente vengono a crearsi enormi problemi, nell’avere un contenitore vuoto che si degrada sempre più, sia per fattori temporali, sia per incursioni di vandali di ogni genere.

Un lunghissimo elenco che va da Nord a Sud e bipartisan con amministrazioni che in maniera insensata programmano opere costose, brutte, inutili quanto deleterie per il tessuto storico. Smagliature irreversibili che cancellano la memoria alterano l’equilibrio come nel caso di Milazzo, con la piazza della Stazione, poi Torino con la Cavallerizza ed un continuo proliferare di grandi centri commerciali, di cui uno prossimo nella storica Galleria Subalpina.

Firenze, dove l’amica Patrizia Asproni conduce una battaglia contro il degrado e il recupero dello storico Stadio Franchi, Milano con le auto autorizzate sui marciapiedi per non parlare della demolizione di una palazzina del 1926 in stile eclettico nel quartiere di Porta Romana per costruirvici un ennesimo centro commerciale, mentre a Roma gran parte del centro è fatiscente, una continua distesa di bancarelle e negozietti con finto “made in Italy”. Si enfatizzano grandi opere, come il discutibile Ponte sullo Stretto e non si pensa alla manutenzione ordinaria, verde compreso.

I parchi cittadini sono per lo più trascurati , come il grande Parco del Meisino tra Torino e Moncalieri, dove si paventa un grande complesso sportivo. Torino poi asfalta il cuore del centro storico, non in senso metaforico ma reale, asportando le antiche lose (le lastre di pietra usate per la pavimentazione, ndr) per creare un manto bituminoso. Lo stesso destino, ai tempi di Marino, si prefigurava per Roma in piazza Esedra e vie limitrofe. Ne venni a conoscenza leggendo i programmi di opere per il Giubileo 2015 e denunciai qui il pericolo.

Cittadini, selciaioli, associazioni, politici intervennero e i sampietrini furono risparmiati, riparando le sconnessioni e lacune. Identica situazione per Torino, alcune vecchie lose sono effettivamente in frantumi, altre andrebbero riparate, io stessa sono caduta ma ciò non significa che si debba creare un nastro d’asfalto per la storica via Po, un lungo rettilineo, che va da piazza Castello a piazza Vittorio Veneto.

Le pavimentazioni dei centri storici vanno tutelate e restaurate, perché sono importanti come gli edifici che le adornano. Non capisco come istituzioni che si prefiggono di salvare i beni culturali, come a Torino la Consulta, non adottino tratti o vie storiche intere per recuperarle. Le vie, le piazze, come il caso di Piazza Marconi a Milazzo, vanno salvaguardate integralmente, selciato, alberature, sculture, fontane insieme agli edifici, solo così si potrà conservare la loro storica bellezza.

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L’Italia è diventata un mostrificio: esposizioni ovunque, molte assurde. Ma qualcosa si salva

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Lo Stivale è diventato un unico lungo estenuante mostrificio. Non mi riferisco solo ai mostri architettonici, ma anche per le centinaia di mostre che si inaugurano in modo compulsivo, parossistico e inquietante in tutta Italia. Alcune sono incomprensibili, assurde, commerciali – anche se presentate come eventi unici, dispensatori di cultura – altre sono indissolubilmente legate al mercato dell’arte, ai galleristi.

Proprietari di quadri e collezioni spingono amministrazioni pubbliche ad organizzarle per rilanciare un artista o un’epoca. Così il bistrattato Ottocento, arrivato ai minimi storici 5 o 6 anni fa, è riproposto in tutte le salse per far lievitare le quotazioni, spinti da galleristi e collezionisti; i musei, a tal fine, si sono inventati riallestimenti di queste sezioni scarsamente visitate. Poi ci sono musei e Palazzi, stracolmi di suppellettili che, magari poco visitati, si sono riciclati come luoghi di mostre, a volte ristrette tra un comò, un tavolino intarsiato, un armadio laccato, un divanetto damascato.

A Torino questo fenomeno è molto diffuso e frequente nelle dimore sabaude e residenze nobiliari, diventate quasi tutte musei ma adesso anche sedi espositive temporanee. Poiché i costi di gestione sono altissimi, si è inventato un modo veloce per fare cassa con il rischio dell’annullamento del valore intrinseco dell’edificio storico, quasi sempre pregevole.

Si smarcano tre sedi: una a pochi km da Torino, la Reggia di Venaria, Palazzo Strozzi a Firenze e le Scuderie del Quirinale a Roma, splendidi contenitori vuoti ed idonei per gli ampi spazi ad allestimenti anche complessi. A Venaria si svolgono spesso mostre simultanee a Venaria, dati gli 80.000 mq; sono spettacolari le sale vuote di Palazzo Strozzi che passa con disinvoltura dal classico come con Donatello al contemporaneo con la collezione di Patrizia Sandretto Re Rebaudengo; sempre riuscite le mostre alle Scuderie, di cui l’ultima, eccezionale, “L’Arte ritrovata”, curata da Luigi Gallo.

A Torino in questi giorni quattro mostre diversissime tra loro, due in sedi auliche, Palazzo Madama, Museo Accorsi ed un’altra, in una nuova promettente Galleria, la Febo e Dafne, con l’artista Claudio Napoli, che alterna la fotografia al cinema, creando effetti speciali, tanto da ottenere diversi David di Donatello; mostra con composizioni modulari, ottenute con formelle 20*20 che creano effetti ottici quasi ipnotici, quando sono allineati a multipli. Creati digitalmente e con un algoritmo di sua invenzione, Napoli scompone le architetture tra cui quelle razionaliste di Terragni, con cromie abbaglianti. La sua formazione da architetto ed anche da pubblicitario, ed il vivere tra l’Italia e gli Stati Uniti, fanno di lui un artista internazionale di tutto rispetto

Un’altra, al Museo Accorsi che, finalmente ha sfoltito le sale per accogliere la produzione artistica veneziana del XVIII secolo, che è una delle più ricche, variegate e qualificate del panorama europeo. Una delle mete più ambite e predilette del Grand Tour internazionale, Venezia diventa un punto di riferimento per l’Europa intera, in grado di attrarre non solo aristocratici in cerca di svago, ma anche avventurieri, politici e personaggi del mondo dello spettacolo bramosi di notorietà. Il suo nome è associato al concetto di “prodotto di lusso”, tanto nei campi della pittura e della scultura quanto in quelli delle arti decorative: l’ebanisteria, i tessuti, i merletti di Burano e i vetri di Murano e tutti questi aspetti sono visibili nella mostra curata dal direttore Luca Mana che ha realizzato un allestimento finalmente “pulito”, coerente con il contesto.

Altra mostra interessante la si può vedere, nell’iconico Palazzo Madama già sede del primo Parlamento subalpino e anche storia di Augusta Taurinorum e di Torino. Si compenetrano quattro epoche e quattro stili architettonici e come scritto sopra, è uno di quei Palazzi sontuosi, riccamente decorati ed ammobiliati che poco si presterebbe ad ospitare mostre importanti.

Accompagnati dal più dandy dei direttori di Musei, l’entusiasta, erudito, infaticabile, Federico Villa, ho apprezzato una sequenza di opere e reperti collocati per tema e per epoca, anche se in un allestimento un po’ soffocante, come la tavola multi-funzione (sacra e profana) per cerimonie religiose e banchetti, veramente geniale. La mostra si intitola “Bizantini. Luoghi, simboli e comunità di un impero millenario”, dopo il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, è arrivata a Torino, come seconda sede, per illustrare il “millennio bizantino” con il corpus espositivo principale integrato da una sezione dedicata al rapporto con l’area piemontese.

Con oltre 350 opere – sculture, mosaici, affreschi, vasellami, sigilli e monete, straordinari manufatti in ceramica, smalti, oggetti d’argento, preziose gemme e oreficerie, pregevoli elementi architettonici – Palazzo Madama, già castello degli Acaia e dal 1934 sede delle collezioni del Museo Civico d’Arte Antica, proprio dalla cultura e influsso bizantini, principia nella strutturazione delle sue raccolte di arti applicate, tra le più importanti d’Europa, comprendendo preziose oreficerie, avori, vetri dorati e dipinti, tessuti e maioliche.

Otto sezioni tematiche: Lo scudo di Bisanzio (esercito, burocrazia, imperatore e corte), Il quotidiano (oggetti d’uso quotidiano e gioielli), Da Bisanzio a Costantinopoli (commercio, artigianato, monete e fiscalità), L’esercito di Dio (monachesimo e civiltà della scrittura), Lo spazio del sacro (arredo liturgico e iscrizioni funerarie), L’umanesimo di Bisanzio, Quei bizantini dei piemontesi, Da Palazzo Madama a Bisanzio. In questa bulimica, pur se interessante, mostra non resta che non ammirare il palazzo ed i suoi arredi straordinari.

In ultimo, e per finire in bellezza, se vi volete divertire, non resta che andare nel simbolo di Torino, la Mole Antonelliana, alla Mostra La Mille delle Meraviglie, dove è celebrata l’inventrice del museo stesso Adriana Prolo che è raffigurata come un cartone animato e come tali sono presentati personaggi iconici quali Antonelli, l’architetto della Mole, Darwin, Lombroso e Greneway, secondo l’interpretazione dell’artista, fumettista Stefano Bessoni, e il direttore del Museo del Cinema, Domenico De Gaetano.

Foto tratta da Facebook Città di Torino

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Alluvioni e consumo di suolo: perché parlare solo di cambiamenti climatici è fuorviante

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Longanesi diceva che “gli italiani alla manutenzione preferiscono l’inaugurazione”: nessun aforisma fu mai così azzeccato come per le cosiddette catastrofi naturali. Non fa notizia, secondo i nostri politici, non crea audience o immagine la creazione di sottoservizi adeguati quali fognature, etc, poi pulizia periodica di fiumi, fiumiciattoli, torrenti, tombini, meglio costruire ed inaugurare grandi centri commerciali e divertimentifici.

L’Emilia Romagna, che è tra le Regioni più fragili sotto il profilo idrogeologico, è nel contempo la terza regione più cementificata d’Italia. Premettendo poi che le alluvioni in Piemonte, Lombardia, Veneto e in Emilia Romagna, non sono una novità, chi ha visto almeno una volta la saga dei film di Guareschi su Don Camillo e Peppone ricorderà le sequenze dell’onda di piena del Po e quasi la santa rassegnazione unita alla pronta volontà di ripresa. Ciclicamente a novembre succede, e tragicamente famose quelle del novembre 1085, 1152, 1240, 1331, 1474, 1596, 1609, 1705, quella del 1951, la più ricordata per arrivare poi al 1994 in Piemonte, di Po e Tanaro. Nel 1152 quando il Po ruppe gli argini a Ficarolo cambiando la morfologia con il corso dei due rami a sud di Ferrara, il Volano ed il Primaro, pressoché scomparsi, incrementarono il ramo nord verso Venezia.

Nel 1951, sempre a novembre, dopo otto giorni di pioggia incessante, il Po ruppe nel parmense poi nel Polesine causando centinaia di morti. A tal fine fu istituito nel 1956 il Magistrato del Po, con sede a Parma e diretta derivazione del glorioso “Magistrato alle Acque” di Venezia, creato nella Serenissima nel 1501 dai 10 Savi e che ancora oggi esiste a Rialto. Il Magistrato del Po funzionava benissimo, curando la pulizia di tutti gli affluenti e non solo, aveva piccole stazioni idrometriche per tutto il percorso, come i tanti caselli Anas o ferroviari. Nel 2003 venne istituita l’AiPo, l’Agenzia interregionale per il fiume Po, che però non ha e non ha mai avuto la stessa capacità di intervento. Se qualcosa nello Stato funziona, lo si smantella subito, è la prassi.

Più rare le inondazioni a primavera, tutte avvenute dopo lunghi periodi di siccità, quella disastrosa dell’aprile 1949, prendendo origine da Torino, dove si ebbero per circa una settimana piogge torrenziali.

Per questo ritengo che parlare solo di cambiamenti climatici è fuorviante, almeno per quanto riguarda questa zona d’Italia abituata da tempi immemorabili alle cicliche alluvioni, siccità e poi piogge torrenziali oppure come giorni fa il ciclone.

Anche se quest’ultimo accadimento il Po non c’entra, occorre ricordare il ruolo straordinario svolto dal Magistrato del Po, come prima citato, creato, è il caso di dirlo, a per “arginare” questi problemi. I tanto richiamati cambiamenti climatici, argomento popolare nei media e sui social, non vanno confusi con gli eventi meteorologici ma dalla geomorfologia e dall’uso o meglio abuso del suolo. La creazione, e non chiusura di invasi, porterebbe a mitigare il clima e ridurre le criticità di una zona che ha bisogno di straordinaria portanza d’acqua, data la vocazione prevalentemente agricola di molte aree del ferrarese e ravennate.

Una situazione tutta da verificare, quella della diga di Ridracoli, in un primo tempo ritenuta responsabile della tracimazione della stessa. Bernabè, il Presidente della Diga, preso d’assalto dai media, ha tenuto a chiarire quanto fatto da Romagna Acque: “Abbiamo iniziato a regolare prima dell’emergenza i rilasci di acqua dalla diga: dalle 17.30 di lunedì pomeriggio abbiamo rilasciato 16 metri cubi d’acqua per secondo. Mercoledì mattina la diga tracimava con 21 metri cubi d’acqua al secondo, mentre dallo scarico di mezzo fondo venivano rilasciati altri 20 metri cubi d’acqua al secondo. L’invaso è stato costruito alto come muro per contenere 33 milioni di metri cubi. Oltre questo volume non contiene più acqua”.

Il Presidente ci tiene a sottolineare l’importanza del cosiddetto ‘Gigante della Romagna’ come effetto laminatore delle piene. “Non c’è nulla di vero – chiarisce anche riguardo la contaminazione delle acque – Ci possono essere disservizi localizzati nelle zone esondate o dove c’è mancanza di energia elettrica. Sulla potabilità non ci sono rischi: monitoriamo come gestore delle fonti tutte quelle situazioni che possono condizionare e contaminare l’acqua”.

La rassicurazione sulla potabilità dell’acqua è un fatto oggi smentito dalla Asl e Protezione Civile, anche se il fenomeno di gravi infezioni si riferisce soprattutto all’acqua stagnante, contaminata da carcasse di animali ed ogni genere di rifiuti. Una situazione drammatica determinata dall’enorme consumo del suolo perpetrato in una Regione, che a fronte di gloriose bonifiche, ha preferito trasformarsi da prevalentemente agricola a turistico alberghiera, cementificando ovunque anziché recuperare l’esistente. La pur lodevole capacità imprenditoriale degli emiliano-romagnoli, e la loro indiscussa forza d’animo, non deve anche in futuro essere un ostacolo alla salvaguardia del territorio e alla conservazione della bellezza.

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Torino, un’urbanista newyorkese per svecchiare la città: bene, ma restiamo fedeli alle nostre idee

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E così Torino vuole uscire dall’innato, o perlomeno percepito, grigiore e affida ad una diafana, elegante signora appartenente all’upper class newyorkese, il rilancio della città sabauda. Lo spunto è il nuovo Piano Regolatore che ha fatto convergere, in una tre giorni di incontri e passeggiate notturne, personaggi noti e meno noti, non solo a parer mio ma dei vari presenti, a disquisire sul futuro della città. Vedendola arrivare a me e sembrata il clone, senza occhiali scuri, di Anne Wintour, la mitica direttrice di Vogue America.

Elegantissima, magrissima, molto abbiente, Amanda Burden di Fondazione Bloomberg, sarebbe stata l’icona ideale di Coco Chanel, che sosteneva che “una donna non è mai troppo magra e non è mai troppo ricca”.

Invitata da Stefano Lo Russo, ai miei occhi il più macho dei sindaci italiani, che durante un viaggio a New York, rimase folgorato dal glamour e rinnovamento che la signora aveva saputo imprimere alla città. E così con una squadra di architetti del cerchio magico di Bloomberg, Amanda ha trasformato una parte industriale in una parte vivibile ed attrattiva.

La cifra è la famosa “High Line”, una lunga passerella, che l’ex sindaco Rudolph Giuliani voleva demolire perché fatiscente, per la serie, anche i migliori a volte sbagliano. La High Line Park insiste sulla sezione meridionale in disuso della West Side Line di 2,33 km, che corre lungo il lato occidentale di Manhattan. È diventata un’attrattiva di New York e messa in evidenza dai tour operator come “imperdibile”.

Amanda Burden ha detto di essere rimasta colpita da Torino che, pur avendo quattro fiumi non li riesce a valorizzare, e questo in parte è vero. Nessuno viceversa le ha ricordato che – non senza polemiche – fu realizzato alcuni anni fa, anche nella città dell’auto, un parco lineare con attrattive varie, un museo, bar, ristorante: si tratta della ex Pista del Lingotto, per chi non lo sapesse il circuito di prova sopra l’originario stabilimento Fiat, progettato nel 1921 da Mattè Trucco, un maestro del cemento armato.

Non è stato anche ricordato che la Torino Sabauda ha una lunga passeggiata che va da Palazzo Reale, sotto i portici della Prefettura, sino al fiume Po tutta al coperto e costellata di negozi, bar, ristoranti, musei, chiese.

Più che indicazioni di carattere urbanistico, la signora Burden potrebbe imprimere una impronta di glamour che alla città da sempre manca per il voluto understatement che tradotto in torinese fa “esageroma nen”. Persino nell’accoglienza di Amanda, si è notato il pauperismo per dirla alla Francini, nell’allestimento non minimal ma da comizio di paese.

L’apice di questa inclinazione della città si è raggiunto nel compromesso del progetto sulla Cavallerizza, di cui ho scritto più volte. Un contenitore, che diventerà quasi un aulico centro di raccolta di vari enti invece di un Polo Museale Musicale attrattivo per il pubblico internazionale, dedicato ad esempio all’opera, Opera connotativa dell’Italia, essendo anche la Cavallerizza incastonata tra il Teatro Regio e l’Auditorium. Sulla stregua tra l’altro della Mole Antonelliana diventata, quasi trent’anni fa, il Museo del Cinema, cinema nato a Torino, e che è uno dei musei più visitati d’Italia, soprattutto dopo l’ultima gestione.

Concludendo, va bene sentire i consigli di Amanda per convincere magari i più restii al rinnovamento urbano, ma il rinnovamento deve essere sempre coniugato con la nostra cultura e con la nostra idea di bellezza.

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Musei Vaticani, un modello di efficienza organizzativa e un ristoro per occhi e anima

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E’ il secondo Museo più visitato al mondo dopo il Louvre, (dati del 17 marzo 2023) e sarebbe il primo in Italia, se non fosse che giustamente è considerato come appartenente ad uno Stato estero: parlo ovviamente dei Musei Vaticani, inaugurati ufficialmente nel 1771. Mi ci sono recata pochi giorni fa, circa vent’anni dopo la mia ultima visita e durante l’anniversario dell’introduzione dell’Arte Contemporanea voluta da Paolo VI nel 1973. Arte contemporanea che non ha mai smesso di dialogare con la classicità dopo cinquant’anni: una testimonianza è anche l’opera di Arnaldo Pomodoro nel Cortile della Pigna.

Cortile in parte compromesso esteticamente da una invasiva capanna lignea che funge da caffetteria; ci consola il fatto di aver avuto rassicurazioni che è provvisionale, in quanto di prossima realizzazione un bar interno. Ci dobbiamo credere per forza e sulla fiducia, perché da noi, a pochi km nell’altro Stato più ampio, nulla è più definitivo del provvisorio.

Emozionante poi il nuovo percorso, inaugurato durante il Giubileo 2015, che consente con un unico biglietto di vedere Musei e Cappella Sistina scendendo dalla mitica scala elicoidale inaugurata il 7 dicembre 1932. Già proprio questa onirica e suggestiva scala che dà un senso di celestiale vertigine è in molti opuscoli turistici, erroneamente attribuita al Bramante. Autore di questa meraviglia fu invece Giuseppe Momo, un architetto vercellese molto attivo tra gli anni 30 e 40, già Architetto della Veneranda Fabbrica di San Pietro per volere di Pio XI. La scala elicoidale è formata da una doppia rampa, che può essere discesa in senso contrario per uscire dai Musei Vaticani, e si dipana verso l’uscita del Museo stesso. E’ citata ovunque quando si parla delle varie scale elicoidali nel mondo, e l’equivoco sull’autore di questo prodigio, attribuendolo al più noto Bramante attivo cinque secoli prima, è dovuto viceversa ad un altro progetto situato vicino al Museo Pio Clementino e progettato nel 1507.

I Musei Vaticani rappresentano un modello di efficienza organizzativa con un imponente stuolo di custodi, circa 300, che vegliano con attenzione, preparazione e cortesia sulla moltitudine di visitatori, a volte indisciplinati.

La Cappella Sistina è ben presidiata, un maggior sforzo organizzativo deve essere auspicato invece per le Stanze, contingentando i gruppi e impedendo alle guide l’uso di ombrellini, bastoni da selfie e quant’altro serva loro per indicare le opere ma che inopportunamente vanno a finire sulla testa del malcapitato di turno. Un’altra piccola osservazione, ma è una mia mania assaggiare l’acqua in tutti i luoghi in cui mi reco: la mancanza di fontanelle nei vasti e ben tenuti spazi verdi. A parte questi modesti dettagli in via di superamento, bar nel Cortile della Pigna e super affollamento in alcuni spazi, il Complesso dei Musei Vaticani, si rileva uno dei luoghi d’Arte meglio conservati e organizzati non solo nel nostro territorio, ma nell’intera Europa.

Una intera giornata è un ristoro per la mente, l’anima e gli occhi, appagati da tanta ineguagliabile bellezza.

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A Palazzo Strozzi torna il Rinascimento con Yang Pei Ming: un artista intriso di cultura italiana

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Il “Rinascimento” è tornato a Palazzo Strozzi, questo è ciò che ho pensato quando ho visto le opere di Yang Pei Ming, un importante artista franco-cinese, che ha riportato d’attualità la pittura, un genere che sembrava scomparso nell’arte contemporanea. Dopo tante installazioni, land art, sculture in materiali insoliti, Pei Ming riporta in mostra le pennellate energiche, costruite con pennelli rigorosamente italiani “perché quelli cinesi dopo poco perdono i peli”, così dice lui in conferenza stampa.

E così gli amati strumenti di lavoro diventano una scultura, l’unica presente a Palazzo Strozzi: una piccola piramide di pennelli consumati intrisi di colore, colore che usa in modo rigorosamente monocratico o rosso o grigio o tutto arancione. E così le sue grandi tele ben si sposano con gli spazi magniloquenti dell’edificio simbolo del Rinascimento fiorentino.

Mai artista si è così ben intriso di cultura italiana, di storia e di cronaca, come lui stesso confessa. Pur vivendo da moltissimi anni a Digione ha sempre seguito le vicende italiane del Novecento, come tre morti violente, viste in foto d’epoca, dove i corpi senza vita umiliati e vilipesi diventano per Yang una postuma preghiera in un sentimento di umana pietas: sono le morti di Pasolini, di Moro, di Mussolini e Petacci.

Nel suo descriverli, si autoassolve dall’accusa di aver usato immagini forti e tragiche, sostenendo che “l’arte non è una carezza”. Un risvolto sentimentale e affettuoso, che fa parte anche del suo essere artista – infatti viaggia sempre con la sua numerosa famiglia a fianco – è quello di aver dedicato il suo quadro più importante all’amata madre morta nel 2008, quadro che nonostante le moltissime richieste non venderà mai, “perché la mamma mica si vende e voi italiani mi capite, ‘la mamma è la mamma’”.

Altra passione la cucina, derivata anche dall’aver fatto il cameriere in Francia per mantenersi agli studi. Un po’ come tutte le star gigionisticamente loda il nostro stile di vita, la nostra cultura, il nostro cibo, tanto da chiedere al Bistrot dello Strozzi un piatto di spaghetti in bianco con vongole, non come fanno a Venezia, come dice lui, con il pomodoro, e chissà Cipriani cosa dice su questo e come lo fa…

Concludendo questa mostra è la perfetta riuscita sintesi di quello che Palazzo Strozzi con Arturo Galansino vuole essere, un centro culturale che si snoda nella Firenze classica, di storia, contemporaneità, lusso, non a caso è baricentrica alle vie esclusive della moda.

Non vuole però neanche essere un peso per la città e il presidente della Fondazione snocciola cifre da capogiro a fronte di alcuni finanziamenti pubblici, ma la maggior parte sono privati. Palazzo Strozzi ha generato, l’anno scorso, un indotto di oltre 114 milioni di euro. Questa mostra, inaugurata in un periodo insolito, come sottolinea il direttore Galansino, è destinata a fare il botto come quella su Donatello, unendo classicismo e contemporaneità. Vista la tendenza di aprire nei mesi destinati alle vacanze, altre due sedi che si contendono con Palazzo Strozzi magnifiche e ampie sale vuote, quelle che io prediligo per mostre temporanee, sono le Scuderie del Quirinale e la Reggia di Venaria.

Alle Scuderie, che non deludono mai, anche se bissare “l’Arte liberata” è quasi impossibile, un’altra mostra sulla Memoria: la Collezione Alinari, “L’Italia è un desiderio” con foto inedite, insolite, uno spaccato della penisola sulla grande e piccola storia.

Per finire la Reggia di Venaria che d’estate si trasforma in loisir con una miriade di iniziative dentro e fuori, nell’immenso parco. A parte il prolungamento della mostra su Leonardo, si è tenuta pochi giorni fa una sessione de “la Milanesiana” ideata e curata da Elisabetta Sgarbi che ha anche organizzato la presentazione dell’ennesimo libro di Vittorio, “Scoperte e rivelazioni” su opere nascoste, trovate per caso ma degne di nota. Parallelamente si è esibita un’altra famiglia di operatori culturali ed artisti, i Gribaudo, che essendo sabaudi sono meno effervescenti degli Sgarbi ma non per questo meno istrionici ed eclettici. A un anno della scomparsa del grande Ezio Gribaudo, artista singolare e poliedrico, c’è un assaggio di quella che sarà l’opera omnia sempre alla Venaria o a Rivoli nel 2024. Insomma un’estate calda di eventi da trascorrere, volendo, non solo tuffati in mare ma anche nella nostra eterna bellezza.

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Non si possono visitare i musei compressi come sardine: il segreto è accordarsi con le guide

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La locuzione latina “In medio stat virtus” non si addice per la gestione dei beni culturali. Da una parte gli elitari, i talebani, i conservatori, dall’altra gli aperturisti, gli spregiudicati, i massificatori.
Questo vale per le città d’arte, i borghi, i musei e gli edifici storici in generale, che sono assurdamente motivo di scontro ideologico e culturale. Partendo dal presupposto che questi luoghi debbano essere fruiti in modo appagante, gustati – e non ingurgitati – e neanche visitati stritolati e compressi come sardine in scatola, altrimenti che piacere è – parafrasando una vecchia pubblicità di un noto caffè. Vediamo di riordinare le idee.

Partendo dal presupposto che ognuno è libero di gestirsi viaggi e vacanze come meglio crede, in gruppo, in famiglia o da solo, questa libertà non deve però ledere gli altri modi di viaggiare o gustare siti storici, parchi, musei. Iniziando da diverse questioni su cui si dibatte da decenni: numero chiuso in città d’arte o luoghi ambientalmente sensibili – il richiamo a Venezia e Firenze è inevitabile – borghi, parchi e anche ingressi musei, per cui la bigliettazione compulsiva pare essere l’unico obiettivo di diverse istituzioni.

Il mese scorso ho scritto un post sui Musei Vaticani, gestiti abbastanza bene, per quello che ho potuto vedere e costatare. Ero stata a fine giugno dalle 14 alle 17 e nelle gallerie dove sono allocati i gruppi scultorei più noti era quasi il deserto: l’imbuto si è creato nelle piccole stanze di Raffaello ma proprio per il muro dei gruppi. Ora questi gruppi sono sempre più numerosi e intralciano il deflusso di turisti singoli o piccoli nuclei familiari. Provare ad attraversare piazza Duomo a Firenze o piazza San Marco a Venezia – ma ci aggiungerei anche Capri, da poco polo culturale grazie a Massimo Osanna – ad esempio è un’impresa da Mission: Impossible: questi grupponi con relative accuddenti amorevoli guide, che fanno legittimamente il loro lavoro, sono la dimostrazione della legge fisica dell’impenetrabilità dei corpi.

Certamente questo non succede quando si scaglionano gli ingressi dei gruppi, come ci dice il direttore di Palazzo Strozzi, organizzatore di mostre di grande successo, come l’attuale bellissima su Yan Pei Ming. Il segreto, ci confida Arturo Galansino, è accordarsi con le guide, indicare date e orari verificando l’entità numerica dei gruppi e le tipologie compatibili con le prenotazioni dei visitatori autonomi. Un altro segreto solo gli orari prolungati che consentono di dilazionare e fluidificare gli ingressi. Ogni sito, ogni museo è un caso a parte, come ogni luogo con attrattive turistico-culturali: Palazzo Strozzi è aperto, ad esempio, sino alle 20 e il giovedì sino alle 23.

I musei devono essere vissuti e goduti come uno spettacolo cinematografico, teatrale o musicale dopo gli orari lavorativi, magari dopo cena senza l’ansia della chiusura alle 19, in alcuni casi addirittura alle 18. Facile per una fondazione privata come Palazzo Strozzi, che produce un indotto commerciale unico nel panorama italiano, data anche la tipologia del visitatore di fascia medio alta dal punto di vista culturale sociale ed economico, consumatore del “lusso” in tutte le categorie merceologiche e dell’ottimo e fresco ristorante interno.

Passando dal privato al pubblico, il direttore della Reggia di Venaria, Guido Curto, infaticabile organizzatore e curatore di mostre, ci rassicura sul prolungamento sino alle 19 – io auspicherei sino alle 20 – mentre per speciali serate d’estate sarà protratto sino alle 23. Anche qui il ricupero di questa dimora sabauda, di cui fui la prima sostenitrice insieme al compianto Falzoni, ha prodotto un proliferare di attività commerciali che dovrebbero di conseguenza essere aperte sino a tarda sera.

La Reggia di Venaria poi, come altre Regge e dimore storiche, sono tutte climatizzate e dotate di rigogliosi parchi, e sono la risposta all’incauto ministro tedesco Karl Lauterbach, che lamentava il caldo eccessivo dell’Italia per poterla visitare. Ignaro costui che i suoi connazionali viceversa passeggiano tranquillamente nei famosi grupponi organizzati all’una di pomeriggio in piazza Duomo a Firenze, come se nulla fosse.

L’offerta in Italia è ampia e variegata ma manca, come sostengo da decenni e ho ripetuto più volte anche qui, l’organizzazione e la sinergia tra vari ministeri. Anzi, sarebbe auspicabile il ritorno al Mibact, che accorpava giustamente la cultura al turismo, essendo il nostro paese detentore della più grande bellezza al mondo, quantitativamente e qualitativamente.

Foto autorizzate da Direzione e Ufficio Stampa Palazzo Strozzi e Reggia di Venaria

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Ogni albergo deve rispettare spirito e cultura del luogo in cui è inserito

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Ho una vera e propria passione per gli hotel, sia come cliente che come progettista, mi piace dormire in un letto morbido e profumato, lontano dalla mia città e coglierne le differenze nelle inflessioni dialettali degli addetti e lo stile specifico del luogo, nell’architettura e negli arredi.

Un dettaglio, un colore, può immediatamente immergerti in un mondo non tuo ma che subito ti prende e quando ti svegli al mattino, in quel letto, capisci subito il posto in cui sei arrivato.

Nei nuovi hotel l’architettura dev’essere contestuale, coerente negli stilemi e nei materiali, che in ogni località trovano una sua ragione ed essenza. Mi piace progettarli pensando al comfort e alle esigenze del cliente e soprattutto pensando a cosa vorrei io per sentirmi meglio che a casa.

Ex caserme, monasteri, ospedali, collegi ma anche ex carceri possono senza turbamento alcuno, e ancora meglio di ulteriori colate di cemento, diventare – anche grazie alla loro specifica distribuzione degli spazi, allineamento camere, grandi cucine, corridoi, sale – funzionali strutture alberghiere già inserite nel tessuto storico e sotto il profilo energetico più performanti dei cosiddetti edifici sostenibili definiti a basso impatto ambientale.

Ovviamente l’ideale, come già detto, è rappresentato dai vecchi hotel, quelli storici come La locanda della Posta a Cavour della famiglia Genovesio, con ancor oggi Giuliana, dove Giolitti aveva fatto installare il telegrafo per rimanere sempre in contatto con Roma, durante la lunga villeggiatura nella Villa con 25000 ettari di parco.

E che dire del mitico Grand Hotel Excelsior Vittoria a Sorrento, che ospitò a lungo Enrico Caruso, reduce da una delicata operazione al polmone sinistro. Sempre nello stesso albergo soggiornarono Wagner, poi in tempi più recenti Marylin Monroe e quindi Lucio Dalla, che qui compose Caruso. Per fortuna la proprietà, capitanata dalla energica Lidia Fiorentino, la cui famiglia detiene la struttura dal 1834, ha mantenuto l’aspetto originale.

Analoga impostazione hanno due strutture alberghiere nate dalla fama di specialità della zona cucinate in modo sopraffino, uno è il Leon d’Oro ad Orta San Giulio, della Famiglia Ronchetti dal 1640 e che vide tra i suoi illustri ospiti Friedrich Nietzsche; l’altro è la Manuelina di Recco di Cristina e Cesare Carbone che nasce come un’osteria-locanda, diversificata come clientela negli orari, di giorno i lavoratori e la sera i signori.

La bisnonna degli attuali proprietari, geniale imprenditrice, rivisitando un piatto semplice riesce in poco tempo a farlo diventare piatto importante: la famosa Focaccia di Recco. Questo piatto, poi in tempi recenti patrimonio IGP, attirava personaggi da tutt’Europa e aveva estimatori come Cavour, Mameli, Stendhal e assidui avventori come Einstein, Gabriele D’Annunzio e Umberto Eco.

Da metà del Novecento, è un hotel de charme con stanze a tema “erbe aromatiche “e sulla scrivania assaggi di pesto, miele ed olio. Pertanto grande sorpresa e dispiacere, è stato apprendere che lo storico “mio” Hotel La Palma di Capri, sorto nel 1822 come Locanda Pagano, è diventato anglo/americano/tedesco per via dell’acquisizione del Gruppo internazionale Oetker Collection e dalla proprietà Reuben Brothers. Via le maioliche colorate dalle camere, nei toni tipicamente capresi, blu, giallo, verde acqua, la hall d’epoca e il soggiorno con qualche pezzo essenziale e leggero di design ma che ben si inseriva nel contesto.

Adesso uno stile inconcepibile a metà strada tra Miami, New York e Marrakech, nulla ricorda negli interni l’Isola dell’Amore come viene chiamata e meta di villeggiatura dell’imperatore Tiberio, che fra tutte le ville preferiva Villa Jovis.

Stesso destino per tanti alberghi storici ignorati dai nostri imprenditori e proprietari di catene alberghiere e stessa sorte per immobili convertibili in hotel, come il suggestivo edificio in pieno centro a Gubbio, il Complesso le Ex Orfanelle, che attende inspiegabilmente da anni un compratore – e come decine di immobili del Demanio in isole e luoghi incantevoli, le cui Aste vanno deserte.

Spiace dirlo ma ci occorre assistere alla svendita del nostro patrimonio architettonico e al suo stravolgimento da parte di gruppi esteri che non hanno a cuore la nostra cultura e storia. Occorre trovare il genius loci, oppure com’è riuscito uno strampalato, divertente quanto affascinante albergo, il 25 Hours Hotel di Firenze ricavato in parte dal Monastero di San Paolino e dall’ex Monte dei Pegni e ispirato totalmente alla Divina Commedia: i piani sono suddivisi in Inferno, Purgatorio e Paradiso e accedendo alle camere risuonano i versi del Poema declamati da Benigni, un’esperienza quindi singolare che vale la pena di sperimentare.

Concludendo, ogni albergo deve rispettare lo spirito e la cultura del posto in cui è inserito, ogni intervento di riqualificazione deve essere attento alle tipologie costruttive e ai materiali senza scendere all’osceno “caratteristico” o ancor peggio “pittoresco”, ma dosare, reinterpretare con il giusto equilibrio, i valori e le fascinazioni del luogo in un ambito di decoro e nell’obiettivo di assoluta Bellezza.

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In carico al Mit vi sono restauri di immobili di grande pregio: recuperarli sarebbe un esempio

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Una volta si chiamava Ministero dei Lavori Pubblici quello che è ora MIT, ed era un bel ministero efficiente sia a Roma che nelle sedi periferiche, definite Provveditorati alle Opere Pubbliche – a parte episodi eclatanti, quale fu quello delle ”carceri d’oro”, ed altre amenità del genere.

Personalmente, ho intentato nel passato quattro cause con il Provveditorato alle OO.PP. del Piemonte, che mi aveva revocato l’incarico per il restauro del Forte di Fenestrelle e di altri tre immobili di grande interesse storico-artistico, adducendo motivi pretestuosi e falsando le carte, cause stravinte al Consiglio di Stato per “travisamento dei fatti”.

Ricordo con nostalgia tanti ottimi dirigenti sia a Roma che nelle sedi periferiche, in particolare il dr. Valentino, che si occupava di edilizia demaniale storica e ricevendomi affermava sempre “ce ne fossero tanti come lei” per il mio impegno e dedizione. Impegno, dedizione, professionalità non sono più qualità apprezzate, anzi il professionista esterno, progettista, sempre di livello perché così è giustamente previsto e richiesto, viene prima spremuto, poi angariato ed umiliato. Si arriva addirittura, con tanto di cartello esposto con il suo nome, ad inibirgli l’ingresso al cantiere come “non addetto ai lavori” perché spesso si avoca a sé la direzione, dando interpretazioni arbitrarie al progetto. Mi preme ricordare Plautilla Bricci, l’architettrice che visse e lavorò nel XVII secolo: il suo facoltoso committente Elpidio Benedetti ordinava al Costruttore di seguire fedelmente le sue direttive e di rispettare i suoi disegni!

Non solo, ma a fronte della consegna del progetto approvato e in tempo utile, altrimenti scattano sanzioni pecuniarie stratosferiche, il pagamento delle prestazioni viceversa avviene dopo molti anni e senza un euro di interessi.

Nel tempo varie riforme tutte peggiorative, come lo stesso Codice Appalti che dal 1994 ha subito una ventina di cambiamenti tra Leggi, D.Lgs, Regolamenti, Circolari più farraginose delle stesse: l’ultima riforma, il D.Lgs 36/2023, non è da meno. Ora i vari Provveditorati alle Opere Pubbliche, come ad esempio quello della Lombardia, che dovrebbe interessare l’attuale Ministro che sembra però concentrato solo sulla Sicilia, sono in grave sofferenza. Gli altri Ministeri gli affidano la progettazione di loro edifici quasi sempre in stato di totale degrado, ma nonostante le pratiche rappresentino l’urgenza, si tratta di edifici storici destinati a Carabinieri, Polizia, Tribunali, Università: tutto rimane fermo per anni. Non solo, ma i vari funzionari inefficienti o infedeli, anziché sanzionati, vengono mandati alla Motorizzazione a fare le patenti. Ovviamente ci sono le eccezioni, ma i pochi “eroi” vengono tartassati e subissati di pratiche.

E’ così nota la situazione che i bandi o le manifestazioni di interesse vanno deserte, a parte quelle da centinaia di milioni. Un vero peccato perché in carico a questo Ministero vi sono restauri di immobili di grande pregio, di rilevanza ed utilità sociale. Il loro recupero nei tempi sarebbe uno sprone ed un esempio, restituendo alle città anche immensa e straordinaria bellezza.

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Che sarà sarà, a Guarene il paese diventa museo

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“Paese mio che stai sulla collina, disteso come un vecchio addormentato”… recitavano i versi di una canzone cantata dai Ricchi e Poveri e Josè Feliciano e intitolata Che sarà sarà ed è questo anche il titolo della nuova esperienza creativa della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, allestita a Guarene vicino ad Alba. Un Paese/Museo, ma non addormentato, anzi vivo, pulsante, poetico creato da una collaborazione tra un’illuminata amministrazione e una quasi rinascimentale contessa, cui le sempre presenti Fondazioni bancarie, San Paolo e Crt, oltre la Regione Piemonte, danno giustamente supporto e che ha coinvolto tutti i residenti facendoli diventare cittadini del mondo.

Questo dimostra, qualora ce ne fosse ancora bisogno, quanto i privati possano essere propulsori di cultura e bellezza, come anche ad esempio, la Fondazione Palazzo Strozzi fa altrettanto brillantemente. Sì, perché Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, una novella Isabella d’Este, ha trasformato questo luogo non facilmente raggiungibile, un’ora esatta da Torino, ma fantasticamente agognato, percorrendo la strada tra filari d’uva, dolci colline, tramonti tizianeschi, in un Paese delle Meraviglie.

Guarene, al centro del Roero, a confine con la città di Alba, capitale del territorio delle Langhe, è un comune che ha ottenuto la bandiera arancione dal Touring Club Italiano poi la “Spiga Verde” e quest’anno nel 2023 è entrato nel novero dei “Borghi più belli d’Italia”, oltre il Castello della fine del XVIII sec., ha dal 1992, il valore aggiunto della Fondazione della Famiglia Sandretto Re Rebaudengo. Un intero luogo d’Arte, quindi, con opere dentro il Palazzo, e fuori nel parco tra i filari, che donano un fantastico rosè, poi tra le siepi di profumato rosmarino, ti appaiano sculture di alberi metallici per accedere infine ad un belvedere unico, da cui assaporare, con un bicchiere delle sottostanti vigne e nel silenzio totale, il paesaggio delle colline.

Perché natura, arte, buon cibo e buon vino da queste parti sono la regola e sia io che Patrizia Sandretto, appassionate testimonial di questo stile di vita, tanto da esserci entrambe gratificate del Premio Mario Soldati, lo coltiviamo con infinita costanza.

E così in questi paesaggi sublimi, si possono ammirare opere di Mariella Senatore, Betty Bee e poi Monica Bonvicini, Enrico David, Marco Giordano e Kinkaleri, Roberto Cuoghi, Giulia Cenci.Bartira, Dafne Boggeri e Caterina De Nicola , Benni Bosetto, Isabella Costabile, Gino De Dominicis, Chiara Fumai e Giulia Piscitelli artisti italiani attivi tra gli anni Novanta sino ad oggi. Insieme alla mostra, Palazzo Re Rebaudengo espone un omaggio a Marisa e Mario Merz, Gianfranco Baruchello e Michelangelo Pistoletto, le cui opere provengono dalle fondazioni a loro dedicate che fanno parte del Comitato Fondazioni Arte Contemporanea.

La sera è un tripudio di colori e luci e andar su e giù per le ondeggianti colline del Roero dona un senso di appagante felicità, magari anche dopo un gustoso piatto di tajarin al tartufo, innaffiato dal vino di Barbaresco, comune limitrofo. Gustare l’Arte è soprattutto questo, unire in un unico connubio, eleganza, saper vivere, ricerca, sperimentazione, gioco e un viaggio a Guarene significa veramente questo.

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A Firenze e Napoli due eventi che mischiano contemporaneo e antico: così le opere si appropriano dei monumenti

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Firenze e Napoli, in questi giorni, si sono riappropriate con il contemporaneo dei luoghi più aulici, dei loro monumenti simbolo, in un dialogo tra antico ed presente: a Firenze nello storico Palazzo Strozzi, simbolo del Rinascimento, la vitalità prorompente di Anish Kapoor, immaginifico artista anglondiano; a Napoli una eccezionale originale rassegna dei film legati all’Arte e alla Architettura, “ArteCinema” che nel più bel Teatro lirico del mondo, il Real San Carlo, ha celebrato con Wim Wenders, il genio di Anselm Klefer.

Le opere immense dell’artista tedesco, al pari di un telero veneziano, sembravano uscire dallo schermo e “invadere” i palchi dorati del teatro borbonico. Così come un enorme cubo bianco ha “invaso” Palazzo Strozzi, esaltando però per contrasto i lati in scura pietra serena del rinascimentale palazzo dei banchieri fiorentini.

E se la ventottesima edizione di “Artecinema” che vedrà le anteprime italiane o mondiali di film, come quello su Picasso, Mies van der Rohes ed altri geni, terminerà il 15 ottobre – quindi occorre affrettarsi a partire per Napoli – la Mostra a Palazzo Strozzi durerà sino al 4 febbraio. La Rassegna ArteCinema è anche un pretesto per visitare, oltre al Teatro più bello del mondo, il teatro Augusteo e il Museo Madre, anche la MetroArt ovvero le stazioni della Metro che sono una grande Galleria d’arte con opere di famosi architetti, da Alvaro Siza a Mendini ed artisti eccelsi quali ad esempio Anish Kapoor, il protagonista della nuova mostra a Palazzo Strozzi.

Napoli con la ventottesima edizione di questa spettacolare e molto partecipata rassegna di film, che raccontano architetti ed artisti anche sotto il profilo umano, si conferma al pari di Firenze, una delle città più dinamiche e prolifiche per gli eventi culturali di spicco e degni di nota. Palazzo Strozzi è uno dei più visitati d’Italia, la Mostra su Donatello fece il botto ed indotto, come bigliettazione, visitatori e presenze negli hotel. Lo stesso ArteCinema, che sta registrando una presenza significativa ed internazionale di pubblico appassionato anche alla ricerca di luoghi particolari per soggiornare in B&B, quali i refettori di chiese, come a Santa Brigida, vicino alla bella Galleria Umberto I°.

Tornando su Firenze allo Strozzi, le opere che più mi hanno colpito sono le mezze sfere concave e convesse “Vertigo “, che danno specie la concava una forte inebriante vertigine, per cui è preferibile scendere con l’ascensore al posto delle storiche scale, e il “Non-object Black “. Interessanti anche le opere a parete, come il “Tongue Memory” ed il ” Today You Will Be in Paradise”.

In conclusione occorre affrettarsi entro il 15 a godere a Napoli di questa eccezionale rassegna cinematografica di storie di artisti ed architetti, magari fermandosi anche per il weekend e poi con più calma passare a Firenze per Anish Kapoor.

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Dimore e regge tra fasti e declino: miseria e nobiltà di molte città italiane

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“Miseria e nobiltà” è il titolo del più celebre film di Totò ed è riferito a Napoli, ma si può applicare a molte città italiane come Torino, Roma, Milano. Mi riferisco a quel mix tossico di opulente bellezza e fetido abbandono, che trovi girando nei centri storici. Strade luride e dissestate ma palazzi imponenti, sedi di teatri splendidi, regge ed auliche dimore nobiliari in paesi abbandonati a se stessi, quando non lo sono esse stesse. Recuperi che in realtà sono pretestuosi, arroganti stravolgimenti delle caratteristiche peculiari dell’edificio, sui quali tornerò prossimamente con esempi emblematici.

Sono stata recentemente a Napoli e il percorso da un singolare B&B, ricavato dal convento di Santa Brigida al Teatro San Carlo, mi ha travolto di emozioni contrastanti. La bellissima Galleria Umberto I, alla sera dimora di senzatetto, unico bar aperto un McDonald’s che poco o nulla c’entra con lo splendore dei marmi e la storia di Napoli. Entrando poi al San Carlo, il più antico Teatro Lirico del mondo, mi sono accorta di un parquet moderno in rovere, da condominio, in contrasto con la magnificenza dei palchi e del soffitto. Lo stesso dicasi per Torino, dove un parossistico susseguirsi di manifestazioni, presentazioni, convegni, mostre al fine di attirare turisti non combacia con strade sporche e dissestate oltre che mal illuminate. Il caso della Cavallerizza Reale è emblematico, con il degrado mostrato al mondo, per via di convegni che ostinano ad organizzare, come l’ultimo della Cassa Depositi e Prestiti.

I dintorni con il circuito delle dimore sabaude, di cui molte in attesa di un serio recupero come Racconigi, che potrebbe costituire un unicum nel mondo, ma a parte l’inserimento nei Beni Unesco poco o male si è fatto per un’effettiva e pagante valorizzazione. Ci prova Venaria, a parte il susseguirsi incalzante di mostre, adesso con i “Sovrani a Tavola” e “Turner”, con eventi che la fanno tornare “Reggia” e non solo contenitore ed esposizione di oggetti e quadri. E così per una notte sono tornati gli abiti lunghi, smoking, i frac con decorazioni, i cadetti della Marina Militare, i valzer di Strauss per l’evento benefico “Vienna sul Lago”.

Le Regge sono nate per questo e una volta cessato l’uso da parte dei suoi originari proprietari è giusto usarle allo stesso modo almeno per una sera di tanto in tanto. Chi trova sconveniente tutto ciò non capisce l’architettura: le grandi dimore, più che per mostre, alcune non imperdibili, devono essere usate come tali ed un modo anche per tenerle in vita, renderle autonomamente redditizie e non pesare sui contribuenti. Pertanto una riuscita ed elegante manifestazione con indotti, non solo per la cittadinanza ma per tutto i comuni confinanti. Altro caso Roma, che con il suo valore riconosciuto potrebbe, se ben valorizzata, da sola risanare il deficit italiano, ma l’immagine desolante vicino alla Stazione, i cassonetti ricolmi, le strade dissestate, nella città che le ha “inventate” sono una cornice poco consona ed esaltante per chi vorrebbe portare la Capitale come competitor mondiale nei grandi eventi.

L’Assessore Onorato, molto attivo a reclamizzare la sua attività in questo campo, dovrebbe anche, a chi di competenza, suggerire anzi pretendere di creare il giusto equilibrio tra eventi e il minimo di decoro urbano. Come ho già scritto più volte, il decoro urbano è il ristoro per chi le tasse le paga e vuole godere delle proprie città, dei propri Beni culturali, della loro Storia, in tutta la loro Bellezza.

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A Torino un’overdose di eventi artistici in pochi giorni: ci credono tutti ricchi e nullafacenti?

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Una overdose di eventi, più di settanta in pochi giorni, tra sedi istituzionali e sedi private, come se non bastasse una fiera del cioccolato ed una sui vini. A Torino luoghi semidiroccati come la Cavallerizza Reale per ospitare Paratissima con “Eye Contact”, mentre Artissima, all’Oval in quattro sezioni con 100 gallerie, si presentava alla trentesima edizione come fiera sperimentale di ricerca e cutting-edge. Sempre al Lingotto, alla Pinacoteca Gianni e Marella Agnelli, inaugurava “Form Form Superform” di Thomas Bayrle. Al Castello di Rivoli, pochi chilometri da Torino, l’omaggio per i brillanti 90 anni di Michelangelo Pistoletto, con la rassegna “Molti di uno” .

Non pensate che sia finita qui, il giorno successivo, le Gallerie d’Italia, un’iniziativa della Fondazione San Paolo, nella sede storica di piazza San Carlo, invasa dai gazebo dei cioccolatieri, presentava “Grant Contemporary Photography”, una rassegna di cinque fotografi contemporanei di talento, in cui ha eccelso Monica De Miranda. Alle Ogr, ex Officine Grandi Riparazioni, da alcuni anni sede espositiva, dalla mattina alla sera, una miriade di mostre, performance sempre sul tema dell’arte contemporanea, a raffica ne proponeva due al giorno.

Impossibile ricordarle e vederle tutte, anche ad essere disoccupati, pensionati, nullafacenti, un parossismo esagerato, uno stordimento anche solo a leggere gli inviti, capirne il significato, gli orari e le sedi. Un tocco di contemporaneo si è visto anche in un’altra inaugurazione, al MAO, Museo d’Arte Orientale, uno dei più interessanti di Torino, anche se non reclamizzato come l’Egizio, con installazioni di Kengo Kuma, mentre le preziose collezioni permanenti d’arte cinese e giapponese, si rivedono sempre con piacere. Dimenticavo, sempre nelle stesse giornate, Flashback in precollina ed il PAV, Parco Arte Vivente “Car Crash” con l’Arte povera e poi la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo con “Visual Persuasion” di Paulina Olowska e Vestiges di Peng Zuquiang.

Dopo questa indigestione di arte contemporanea, penso che gli organizzatori quest’anno abbiano puntato allo sfinimento anche degli appassionati, pensando Torino una città di nullafacenti o ricchi pensionati, andare a Venaria Reale è stato un momento di ristoro, in una calda giornata di novembre.

Dopo le suggestive celebrazioni di San Uberto, nella omonima Chiesa della Reggia ed organizzate dalla relativa Accademia, con tanto di seguito di Cavalieri con corni da caccia alla Volpe, cani e falconieri, visitare la Mostra su Turner. Joseph Mallord William Turner (1775-1851), uno dei più importanti pittori inglesi, presente alla Reggia, sino al 28 gennaio 2024 con 40 opere tra oli, acquarelli e disegni con curatela ed allestimento del prestigioso Tate UK. I disegni, specie nella forma di appunti di viaggio, nello stile Gran Tour, sono i più interessanti perché dimostrano l’interesse e l’amore dell’artista per il nostro Paese e la sua ineguagliabile bellezza.

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I teatri vanno ostinatamente amati e conservati. Il Regio di Torino ne è un esempio

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I teatri sono i templi laici della cultura e della bellezza, uniscono il valore dell’architettura, della civiltà e la storia. Ogni teatro che chiude e che viene riconvertito in un centro commerciale, garage ma anche biblioteca, è una sconfitta per il territorio in cui insiste.

Ultimamente sono stata al San Carlo di Napoli e al Regio di Torino, due realtà molto diverse, antitetiche: una conservazione attenta, la prima, a parte qualche piccola smagliatura come il nuovo banale parquet, una ricostruzione totale per il secondo, sorto dalle ceneri del vecchio Teatro sabaudo. E così mentre il San Carlo, nei suoi stucchi dorati, nel suo straordinario palco reale, rinverdisce i fasti della dinastia borbonica, fasti mai dimenticati a Napoli, a Torino il genio visionario Mollino volle dare un taglio netto alle ambizioni di Regno europeo dei Savoia.

Dall’originario teatro classico del 1740, cui si avvicendarono gli architetti reali, da Juvarra a Pelagio Pelagi, non senza polemiche e quarant’anni di attese e dibattiti dopo il devastante incendio del 1936, fu deciso dal Comune di Torino di dare un taglio netto con il passato. Nel 1973 il Regio fu inaugurato ricalcando gli stilemi dell’epoca e da allora, a parte piccoli ritocchi ed interventi di manutenzione, è rimasto inalterato e molto connotativo dell’architettura degli anni Settanta.

La poca fascinazione rispetto ai teatri classici da un anno è stata superata dall’effervescente Soprintendenza del giovane responsabile francese, Mathieu Jouvin, che ha saputo imprimere una nuova vitalità al “grigio”, anche se molto rosso nei suoi interni, teatro torinese. Si è spinto a chiedere il dress code, almeno per le inaugurazioni, stante l’insana attitudine ed abitudine di molti torinesi, soprattutto ultrasessantenni, di arrivare a teatro abbigliati da gita in montagna.

Non solo ma ha riscoperto opere non molto rappresentate e considerate a torto minori. E’ il caso de “La Rondine” opera, un po’ operetta, un po’ musical, rappresentata, non a caso, per la prima volta a Montecarlo nel 1917. La genialità della scelta durante i festeggiamenti per i 50 dalla ricostruzione ed inaugurazione del 1973 è stata quello di ambientare questa opera, proprio negli anni 70.

Scenografia, coreografia costumi perfetti, eleganti senza sbavature ma il colpo di genio di Pierre Emmanuel Rousseau, regista, scenografo, costumista, è stato quello di ricreare nel secondo atto gli interni del Regio, quasi un effetto specchio da allucinazione visiva. La coincidenza dei due anniversari (Puccini e ricostruzione Regio) hanno fatto il resto, insieme alla coincidenza dell’amore del gaudente Puccini per Parigi e le origini del Soprintendente.

Questo sono i teatri: architetture che sanno creare emozioni vive, sentimenti mai sopiti, fascinazioni che non hanno certo centri commerciali o altre destinazioni non coerenti con l’impianto originario, ecco perché vanno ostinatamente amati e conservati nella loro immutata bellezza.

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I 70 anni della Rai: potendo cambierei l’articolo 1 della Costituzione

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La Cultura e la sua stessa essenza e divulgazione sono il fondamento dell’Italia, potendo cambierei l’Art. 1 della Costituzione: “L’Italia è una Repubblica fondata sulla Cultura”. Lo affermo convintamente, perché questa asserzione porterebbe anche ad altri valori, tra cui il lavoro. Come ho scritto più volte, praticare la Cultura fa bene allo spirito, al corpo e all’economia.

Ora la più grande e nota industria culturale italiana, la Rai, compie 70 anni, con qualche acciacchetto ma più per la mancata cura che per l’età. Come tante ex belle signore si imbelletta troppo, si veste sgargiante e a volte kitsch, trascurando a volte gusto e stile. Tante trasmissioni anche per la scenografia e l’ambientazione kitsch sono altrettanto fabbriche del nulla. Viceversa ci sono canali eccellenti come Rai 5, Rai 4, Rai Storia, nella sezione Rai Cultura, e quasi sempre Rai 3 con Mieli: scenografia essenziale ma grandi contenuti. Mieli è ecumenico, raffinato, obiettivo divulgatore, ad esempio nel raccontare il Ventennio con sapiente eleganza e stile. Ricordo ancora diverse puntate sulle città utopiche come Latina, Sabaudia, Como ma anche le piccole Tresigallo, Jolanda di Savoia nel ferrarese e Carbonia con l’apporto dei grandi architetti Maestri del Razionalismo quali Terragni, Libera, Pagano, Piacentini, Montuori, Valle.

La Rai, al di là di libri e librini scritti senza un vero approfondimento e solo al fine del conformismo e della compiacenza di qualche politico, è stata una maestra nel raccontare il Razionalismo, per molti pseudo-intellettuali ancora un tabù. Nondimeno, anche se con altri format e per un pubblico più popolare, le varie serie sui protagonisti del Rinascimento criticate dai “puristi” ma, sostengo io, certamente utili ai digiuni di storia. Recentemente è stata riproposta la Congiura dei Pazzi, consumata a Firenze nella Pasqua del 1478 con una cura eccezionale della fotografia e dei costumi, girata nei luoghi teatro del complotto tra Santa Maria del Fiore, Palazzo Medici Riccardi, via Calzaioli, Palazzo Vecchio.

Ecco, questo riproporre le immagini più significative di citta iconiche per i Beni Culturali è stata una grande sfida per la Rai, anche con trasmissioni nazionalpopolari ma anche proprio per questo con giusti intenti educativi. Educazione che potrebbe essere fatta con l’intrattenimento leggero da svolgersi anche in luoghi evocativi della nostra cultura musicale quali Teatri storici ma anche castelli e dimore nobiliari. Il vero patrimonio culturale della Rai è però l’Osn, l’Orchestra Sinfonica Nazionale con sede a Torino nell’auditorium Arturo Toscanini, a pochi passi dalla sede regionale, un patrimonio di emozioni e riconosciuta a livello mondiale con le strepitose tournée che costituiscono un’immagine di altissimo livello della nostra unica e ineguagliabile Cultura e Bellezza.

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Pesaro, capitale della Cultura, chieda indietro il suo prezioso dipinto alla Francia

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In tutte le famiglie che si rispettino ci sono le figlie belle e meno belle, quelle corteggiate e osannate, senza che abbiano fatto nulla per questo, solo per un dono della natura. Poi ci sono le underdog, come va di moda adesso dire, anche quelle che non le senti arrivare ma poi stravincono esageratamente. Traslando dalle persone ai luoghi, ci sono casi di successo che molti, direi i più, non hanno osservato e colto. Viceversa io
tenevo d’occhio da un po’ di tempo Pesaro (vedi mio post di anni fa), la sorella meno appariscente della splendida Urbino, se non altro, ma non solo, per aver dato i natali al più raffinato pittore italiano, Raffaello, l’artista divino osannato dai potenti ed adorato dalle donne.

Urbino, una città che è uno spettacolo di arte, di storia, di raffinatezza e che “concesse” alcuni anni di riconoscere la sorella “bruttina” unendosi come provincia con la dizione Pesaro-Urbino. Nel frattempo Pesaro aveva tirato fuori le sue armi di seduzione, perché se Urbino ha Raffaello, Pesaro ha Rossini, il più brillante, giocoso, gaudente musicista lirico italiano. Così si inventò nel 1980 il ROF Rossini Opera Festival, ogni anno sempre più frequentato poi diventato Fondazione con promotori quali Comune, Provincia, Intesa San Paolo, Scavolini, che dura 365 giorni l’anno e ha fatto conoscere Pesaro nel mondo. Moltissimi sono i melomani sparsi per il pianeta, più di quelli che si pensi, tanto da aver presentato questo anno, il programma della stagione a New York.

Sono turisti speciali, non mordi e fuggi, con una grande disponibilità economica, quindi una capacità di spesa per qualsiasi categoria merceologica di fascia alta, oltre che educati ed amanti della lirica e del buon cibo come Rossini, e del bel vivere in generale.

E così Pesaro ha tirato fuori dall’armadio i suoi abiti più sontuosi e si è fatta conoscere, ancor più durante il Covid, trasmettendo sublimi concerti (non me ne sono perso uno, nda) con la memorabile orchestre del ROF.

Se Urbino è la città magicamente descritta dal mantovano Baldassare Castiglione, al servizio dei Montefeltro ne Il Cortegiano, Pesaro – che tra l’altro è la fermata ferroviaria per la città di Raffaello – ha puntato molto sull’ambiente: lo slogan era “La natura della Cultura” confermando quel binomio indissolubile da me sempre auspicato tra Arte e Natura. Non a caso giovanissima consigliera di Italia Nostra, proposi a Giovanni Spadolini di aggiungere al suo nascente Ministero dei Beni Culturali anche l’aggettivo “Ambientali”. Perché è importante preservare l’ambiente la natura intorno ai monumenti e Pesaro l’ha sempre fatto ad esempio con il suo mare “bandiera blu” di cui si può godere ancor più scendendo dalla vetta del parco regionale Monte San Bartolo sino alla spiaggia vellutata.

Non è che poi non vi siano in città monumenti interessanti, dal Palazzo Ducale alla Rocca Costanza alla Cattedrale di Santa Maria Assunta, uno dei simboli delle innumerevoli spoliazioni perpetrato da Napoleone, l’Annunciazione di Caravaggio del 1605 ca e attualmente al Museo delle Belle Arti di Nancy.

Una mia riflessione, perché il sindaco Matteo Ricci – molto attivo e presente sui media e sui social – non chiede alla Francia la restituzione del più iconico dipinto di quel Museo, proprio in questo anno, particolare magari con il patrocinio del ministro Sangiuliano?
Sarebbe un importante tassello per la definitiva consacrazione a importante centro del turismo culturale, oltre quella già ottenuta, con il ROF. Rassegna che ha portato linfa nell’economia pesarese, contribuendo alla nascita di diversi hotel 5 stelle ma soprattutto per la riconversione ad albergo di una villa del XVII sec., Villa Cattani Stuart, immersa in vastissimo parco secolare di 9 ha e che fa parte del circuito “Residenze d’Epoca”. Rispettando lo slogan che ha fatto vincere a Pesaro il titolo più ambito di Capitale della Cultura ed anche, aggiungo io, della Bellezza.

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Firenze, i numeri della Galleria dell’Accademia e il dilemma di sempre sul turismo di massa

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In una stagione di nomine per avvicendamenti e pensionamenti, trovo assurda la norma per cui un direttore di un museo a 65 anni sia considerato anziano, quando un professionista ad esempio è nel fiore degli anni professionali, la tensione è alle stelle e ognuno espone i suoi risultati. I musei possono essere reinventati e snaturati oppure semplicemente valorizzat , per ciò che hanno di più prezioso, magari anche un po’ nascosto.È quello che ha cercato di realizzare nelle sale, ex polverose, l’energica direttrice della Galleria dell’Accademia, Cecile Hollberg, alle prese anche con un fantastica icona, anche se un po’ ingombrante, qual è il David di Michelangelo.

Forse l’opera più riprodotta, in modo improprio e volgare: mi ricordo nei negozietti di paccottiglia turistica, orrendi e osceni grembiuli da cucina in cerata, boccali e altre amenità.
Questo fenomeno non nuovo, che già esecrava Majakovskij nelle Vetrine Rosta, e che a Firenze raggiunge livelli insopportabili, è finalmente destinata a scomparire. La tutela dell’immagine è una delle tante battaglie che la direttrice, così come il ministro Sangiuliano, porta avanti da anni.

Il capolavoro simbolo, ora tutelato, è nella Galleria avvolto in una nuova luce morbida e preceduto dai due Prigioni michelangioleschi, i famosi incompiuti che esaltano ancor più la perfezione delle forme del David. Ricorda la direttrice, quando volle ospitare insieme “i tre uomini più belli d’Italia”: i due Bronzi di Riace, in gigantografia, e il “nostro” David.

Si appassiona e commuove a ricordare l’incontro con l’insegnante americana, cacciata per avere mostrato una scultura classica famosa in tutto il mondo, e non si trattava di un paese integralista ma del paese con la più grande democrazia. Non solo, tra le novità Hollberg annovera la gipsoteca molto affascinante e ben illuminata con in evidenza un busto di un giovane e paffutello Napoleone, innocuo rispetto al discusso e controverso condottiero, quasi una provocazione in queste sale: il Corso è avverso ai cultori d’arte per le tante spoliazioni perpetrate in Italia, 506, secondo Le Bulletin des Artes del 1936.

La gipsoteca che ha subito un restyling con la chiusura dei finestrati non è però l’unica novità: Cecile si è spinta ad aprire in una sala, una finestra, laddove non c’era, per poter far ammirare il Duomo. Bell’idea ma spero che non faccia tendenza tra i fiorentini… Altra novità il ri-allestimento dell’area degli strumenti musicali a tastiera, tanto da suggerire agli appassionati che lo visitano delle serate con i giovani allievi del Conservatorio Cherubini.

Non di poca importanza le presenze, in questo periodo, snocciolate da tutti i direttori: più di due milioni i visitatori nel 2023; e da qua sorge da sempre il dilemma: devono i musei essere come aziende quindi fare grandi numeri per sopravvivere o devono mantenere un profilo basso, essere di nicchia per non innescare gli effetti perversi del turismo di massa? La domanda non è facile ma sinergia, programmazione circuiti ragionati, accordi con la città metropolitana addirittura per – propongo io – avere vigili o volontari che incanalano il delirante e caotico traffico pedonale, possono migliorare la situazione.

Aggiungo anche: perché non fare una seria manutenzione delle strade e stradine ovunque dissestate, tranne un paio intorno al Duomo, e poi un controllo supervisione dell’arredo urbano in alcuni casi imbarazzante? Anche questi dettagli – che poi tanto dettagli non sono – fanno parte del tessuto storico di Firenze insieme agli Uffizi, Pitti, Galleria, Bargello, Martelli, Orsamichele, Palazzo Medici Riccardi, nuovo Museo dei Medici e per l’arte Contemporanea Palazzo Strozzi, e sono un punto di riferimento per la cultura e bellezza.

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Muti porta Un ballo in maschera a Spaccanapoli. Sullo sfondo uno dei palazzi più interessanti

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C’è molta architettura e Napoli nella versione di Un Ballo in Maschera di Giuseppe Verdi diretta da Riccardo Muti, in programmazione al Teatro Regio di Torino, dal 21 febbraio al 3 marzo, che lo stesso direttore – con elegante autoironia e consueto “andante con brio” – racconta prima nella conferenza stampa poi esibendosi sul podio. Non vengono cambiati i testi, anche se qualcuno potrebbe interpretarli distonici e distopici, perché il Maestro è fieramente contro la cancel culture: la storia non si tocca, né l’architettura di periodi che non ci piacciono, né la letteratura, ancor meno la musica, ed è musica in tutti i sensi, per le mie orecchie, poiché molte volte, anche qui, mi sono espressa in modo negativo contro queste scelleratezze.

Per questa ragione non viene cambiato il termine “negri” pronunciato dal giudice di Boston, la storia è ambientata nella città americana, né è stata tolta la frase “fai di me quel che tu vuoi”, detta da una donna ad un uomo.

Il Maestro, che rivendica il primato italiano nella cultura contro gli snobistici atteggiamenti di sopravvalutazione di istituzioni musicali straniere, orgogliosamente elenca le presenze richiestegli all’estero, non tanto per se stesso – afferma – ma per tutti gli italiani: sarà il 7 maggio per i 200 anni della Nona sinfonia di Beethoven, poi il 1 gennaio 2025 per i 200 anni di Strauss, sempre a Vienna.

Come accennato all’inizio, la più stupefacente novità rispetto a tutta la filologicità della partitura e libretto è l’ambientazione non a Boston ma nella Napoli del ‘700, con la facciata interna, liberamente interpretata, di Palazzo Marigliano, già Palazzo di Capua, che è uno dei monumenti più interessanti della città partenopea. Il palazzo si trova a Spaccanapoli ed è di impianto rinascimentale ma fu sostanzialmente modificato in edificio barocco, specie nella corte, con un’importante scala a doppia rampa. Proprio questo è il fondale della scenografia che ha ispirato il regista De Rosa, napoletano come il Maestro, che ha consentito questo strappo storico temporale e di luoghi.

Anche la storia delle persone che l’hanno abitato sembra ricalcare la trama originaria del dramma di “Gustave III ou Le Bal masqué” di Eugène Scribe, infatti nell’atrio che porta al cortile d’onore sono situate due grandi lapidi murarie che ricordano fatti avvenuti in epoche diverse, una la storia di Costanza di Chiaramonte, moglie ripudiata per beghe famigliari ed un’altra i protagonisti di una congiura antispagnola. Ora il Palazzo, che è sempre dei discendenti dei Marigliano, ha avuto molte destinazioni d’uso tra cui uffici della Soprintendenza archivista, altre ancora, ed adesso principalmente a resort di lusso.

Sarebbe affascinante che nelle splendide sale barocche e nello scenografico cortile, liberamente riprodotto al Teatro Regio di Torino, risuonassero di tanto in tanto le note de Un Ballo in Maschera, come aggiungere bellezza alla Bellezza…

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Gli angeli di Anselm Kiefer a Palazzo Strozzi: mai un artista si era così bene amalgamato al luogo

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Mi sono molto ritrovata in questa spettacolare mostra su Anselm Kiefer – a cura di Arturo Galansino – a Palazzo Strozzi, un luogo simbolo, come nessun altro, dell’architettura e dell’urbanistica rinascimentale. Mai nessun artista contemporaneo si era così ben amalgamato nella storia di Firenze, anche perché Anselm la ama e ha definito Palazzo Strozzi, il più bel palazzo del mondo.

Questo affascinante artista tedesco, che adesso vive nell’Île-de-France, a Croissy, ha sedotto anche il grande regista Wim Wenders che gli ha dedicato un film chiamato semplicemente Anselm, presentato a luglio in apertura del Festival ArteCinema,di cui ho scritto ampiamente.

Il Maestro è in bilico tra sacro e profano, spiritualità e trasgressione, materialità e filosofia. I suoi giganteschi quadri, come quelli dei teleri veneziani, solo nelle immense sale di Palazzo Strozzi potevano essere ospitati. Mai nessun altro artista ha così grandemente arricchito il cortile di Palazzo Strozzi, con il suo Engelssturz di 7 metri per 8, tanto da pensare di essere stato concepito nel ‘500.

La particolarità di questo immenso dipinto col cielo dorato, che mi ricorda San Pietro in Ciel d’Oro, a Pavia, dove è sepolto Sant’Agostino – citato da Dante nel Paradiso – è che, in caso di pioggia, rilascerà rivoli d’oro, una citazione/riferimento ad Eliogabalo, il dissoluto, pansessuale imperatore romano di origine siriana che voleva imporre il culto del “Sol invictus”. Non meno evocato questo culto però, nel cristianesimo, con il Cristo con la corona radiata, il Cielo d’oro è anche nelle rappresentazione del Cristo pantocratore e soprattutto nei mosaici di Ravenna, Venezia, Palermo.

I riferimenti cristiani sono tanti, come i riferimenti a Donatello con i bassorilievi e gli stiacciati dorati de L’Ultima cena presenti a Siena, o anche le icone russe di San Michele Arcangelo su fondo oro, a Palazzo Pitti. Quasi una Cappella Sistina, la stanza dei 60 dipinti, una vera Wunderkammer, esaltata da un grande specchio che produce un effetto di un ribaltamento, anzi uno sprofondamento. La stanza è stata allestita dallo stesso Anselm, apponendo un quadro alla volta sul trabattello e creando nel contempo gli effetti illuminotecnici con piantane da lui stesso disegnate, il suo perfezionismo è arrivato poi a riprodurre le proporzioni di Palazzo Strozzi nel suo gigantesco laboratorio di Croissy.

La dimensione storica, onirica e l’ossessione per l’Italia, la Toscana in particolare, ad esempio San Gimignano, sono presenti all’Hangar Bicocca a Milano con i “I 7 Palazzi Celesti”, anche qui parzialmente esposti. Nella realizzazione della sua opera, Anselm Kiefer è stato ispirato profondamente dall’elemento “torre” nella storia, con numerosi riferimenti all’architettura del passato, soprattutto alla sua valenza simbolica.

Tornando in provincia di Siena, un’altra fonte d’ispirazione è senz’altro la pittura di Simone Martini, che agisce su campo dorato, come l’Annunciazione del 1333, conservata agli Uffizi ma anche la “Madonna col bambino” conservata al Wallraf Richatz Museum della sua Germania, precisamente a Colonia.

Alcune installazioni viceversa sono più inquietanti e ci portano al “Locus Solus” di Raymond Russell, romanzo fantasy, diremmo oggi, risalente al 1914, alberi quasi simili a quelli di Pier delle Vigne e terriccio con denti giganteschi. ”Quando questi scritti saranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce” citazione del filosofo veneto Andrea Emo (1901-1983), riscoperto da Cacciari, e pensiero riprodotto nella Mostra di Palazzo Ducale a Venezia nel 2022 e grande fonte di ispirazione per il Maestro tedesco.

Anselm Kiefer e Wim Wender poi si sono influenzati reciprocamente con gli angeli, così tremendamente e disperatamente umani che vagano alla ricerca della città perduta, volteggiando Nel cielo sopra Berlino. Questa ansia e desiderio di trovare e ritrovare oggetti e luoghi magici, come nella storia Gli occhi di Monna Lisa di Thomas Schlesser, una ossessione, prima del buio, di vedere ancora l’infinita e sempiterna bellezza.

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