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Channel: Donatella D’Angelo – Il Fatto Quotidiano
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Grandi Navi, la mostra fotografica di Gardin che sarebbe piaciuta a Adriano Olivetti

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Più di anno fa scrissi con sgomento delle grandi navi a Venezia; con sgomento e rabbia ricordando che una delle forme di inquinamento più subdole è quella riferita all’inquinamento visivo.
Pochi mesi dopo ricordavo la figura di Carlo Scarpa a proposito della luce e della sua capacità quindi a ricavarla anche negli interni.

Queste due circostanze si sono incrociate adesso con la mostra di Berengo Gardin sulle Grandi Navi nel negozio Olivetti di Carlo Scarpa. Contrario il sindaco, e non si capisce perché, quando l’orrore non viene solo mostrato nelle pur belle foto di un maestro dell’obiettivo, ma ce l’ha tutti giorni sotto gli occhi. Entusiasta sarebbe viceversa stato Adriano Olivetti, vero cultore della bellezza, imprenditore sagace ed illuminato che, troppo avanti per i suoi tempi, amava il design quanto la tecnica; anche il suo linguaggio era moderno, quando sosteneva che una bella fabbrica, un bel complesso residenziale erano il biglietto da visita di un’azienda, la sua migliore ed etica pubblicità. Creavano quella comunità di persone che, stando nella bellezza, non potevano che essere migliori.

La visione agghiacciante di quei mostri invece, che sembrano voler entrare di prepotenza e mangiarsi la città lagunare, non può che deprimere e mortificare l’animo delle persone, non solo dei turisti, ma anche e soprattutto dei residenti. Venezia, con un turismo programmato e intelligente viceversa, ne trarrebbe giovamento anche e soprattutto economico. Ma in questo non è isolata, ahimè, con la politica miope ed idiota che si fa sul turismo culturale.

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Halloween, recuperiamo la nostra bellezza

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La volgarità che ha invaso ormai le nostre città, dalle vetrine ed insegne pacchiane nei centri storici o gli insulsi oggetti di arredo urbano, fino agli inutili e autoreferenziali grattacieli, viene accresciuta ogni anno da una allucinante festa trash-macabra. Mi riferisco all’importazione della “ricorrenza” di Halloween; di tradizione anglosassone, molto celebrata ed ampliata negli Usa, una vera “americanata” che ha poco a spartire con la nostra cultura e le nostre tradizioni, alcuni travestimenti con le maschere degli antenati avvenivano in epoca romana unicamente durante i funerali. Le vie delle città così vengono invase da mostri di tutte le età, le botteghe storiche e persino le scuole, riempite di zucche di cartapesta, teschi, falci, scheletri danzanti di plastica, nulla a che vedere con le varie Danze macabre (ad esempio quella di Clusone) in spregio al buon gusto. Inconcepibile a questo punto che i bambini ed anche gli adulti lo recepiscano come una nostra festa, una sorta di Carnevale o Befana.

Mi sono addentrata in queste riflessioni perchè la non conoscenza porta la ricorrenza dei Defunti della nostra tradizione antica, già celebrata con rispetto nell’arte funeraria e nei monumenti funebri, ad essere dimenticata nei nuovi cimiteri identificati come dei mortifici e i sepolcri come contenitori di salme, senza voler infierire sulle recenti opere come il cimitero di Venezia. Diceva Ernesto Rogers: “La memoria conferisce alle cose dello spazio la misura del tempo: di tutto quel tempo che è prima di noi. Ma è il tempo dei morti, riuniti in consorzio per ammonirci di essere vivi come essi sono stati nel loro momento. Ammonire e ricordare (moneo e memini) hanno in latino la stessa radice e da esso acquista valore la parola monumento ed il concetto che essa racchiude simbolicamente”.

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Angelo di Monteverde – Cimitero di Staglieno, Genova 

Nel passato questi luoghi, dopo l’editto napoleonico, assunsero in alcune città delle connotazioni di veri e propri complessi architettonici di grande rilevanza artistica. Sorsero così il Monumentale di Genova, lo Staglieno, progettato dallo stesso architetto del Carlo Felice, Barabino; poco lontano, a Zoagli, una sua riproduzione in miniatura e tantissimi altri in scala ridotta.
Decisamente curiosi come ‘Le Fontanelle‘ di Napoli o magniloquenti come il Cimitero della Certosa di Bologna: un insieme di tombe dei famosi e di firme di maestri dell’architettura e della scultura.

Di impronta romantica il celebre Cimitero Acattolico di Roma che si avvia verso il 300° anno di costituzione e il cui percorso è un libro di storia della letteratura internazionale. Ma l’elenco è lunghissimo ed arriva sino in Sicilia con il Gran Camposanto di Messina; ovviamente non bisogna dimenticare il Camposanto di Pisa ed il Verano a Roma, oltre tutta la lunga serie delle necropoli etrusche da cui deriva il nostro culto dei morti.

E’ importante ricordare forse il più bel sepolcro rinascimentale: le Cappelle Medicee e i tantissimi monumenti funebri come la più emblematica tomba razionalista, quella progettata da Terragni sull’altipiano di Asiago per Roberto Sarfatti, o fare un salto a Ravenna per il mausoleo di Teodorico o sulla via Appia per il monumento a Cecilia Metella. Al di fuori dei cimiteri e dei famedi poi i monumenti funebri nelle chiese quella di Ilaria del Carretto a Lucca e Guidarello a Ravenna e i tanti nella Basilica di S. Croce, il Pantheon di Firenze. L’elenco sarebbe lunghissimo e volutamente ho ricordato i più conosciuti e facilmente raggiungibili perché potrebbe essere un’idea per gli insegnanti celebrare questa ricorrenza visitando i famedi, le chiese con monumenti funebri eccelsi o bizzarri come le Tombe dei Giganti in Sardegna e magari riscoprire le tradizioni culinarie italiane.

Invece dei dolcetti americani infatti occorrerebbe che i nostri forni riproponessero il pane dei morti tipico della Lombardia e Toscana, le ossa dei morti e i piparelli in Sicilia, o quello che ogni regione propone come propria specialità. Pertanto non mancano le motivazioni per compiere escursioni interessanti nei tanti musei all’aperto che sono i nostri cimiteri monumentali o il percorso delle tombe illustri, sia per i personaggi di cui custodiscono le spoglie sia per gli artisti che le hanno progettate ed un modo diverso per celebrare il 2 novembre e rispettare la nostra cultura che aveva il culto della Bellezza anche nella Morte.

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Lavori pubblici tra concorrenza e correttezza: ‘finte’ novità nel nuovo Codice

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“In questo paese non c’è ancora il concetto della concorrenza e del libero mercato” questo il pensiero del Senatore Stefano Esposito, relatore del Ddl 1678 sulla riforma del Codice Appalti, e dal 9 dicembre alla Commissione Lavori Pubblici, ribadito a un recente incontro nell’ambito di Restructura, fiera sull’edilizia di Torino. Questo, che sembra un argomento per pochi addetti ai lavori, in realtà abbraccia vari settori, non solo quello dei Lavori Pubblici, ma ha anche una ricaduta sulla vita quotidiana dei cittadini, sconcertati da opere che non finiscono mai e, quando sono terminate, presentano già difetti in origine e vetustà.

“Avevo proposto di costituire solo 21 centrali di committenza contro le attuali 32.000 stazioni appaltanti” e poi “di ridurre al minimo il ricorso all’appalto integrato” (costruttore che concorre con il progettista su progetti preliminari o definitivi), ha detto Esposito. Come si può leggere nella normativa sugli appalti, saranno anche eliminati i massimi ribassi, che saranno consentiti solo con il cosiddetto “taglio delle ali”. In questo modo si dovrebbe privilegiare il criterio dell’offerta “economicamente più vantaggiosa”, che in teoria dovrebbe essere la più equa ma in pratica, lasciando ampi margini di discrezionalità nel punteggio per la cosiddetta “relazione metodologica”, ha prodotto molte volte la designazione assicurata agli amici.

Chi ha esperienza diretta sa benissimo che partecipare alle gare è un inferno con innumerevoli documenti amministrativi da preparare, tavole e relazioni tecniche, sopralluoghi e tasse preventive da pagare. Tutto ciò per centinaia di volte l’anno, illudendosi che la gara sia pulita, ma non è quasi mai così perché l’aiutino, anche involontario, c’è sempre. A volte per i requisiti sospetti, come il numero spropositato di unità lavorative richieste al concorrente per gare anche modeste.

Una risposta per tutti i professionisti che si cimentano in questi percorsi a ostacoli l’ha data l’architetto La Mendola, vicepresidente del Consiglio Nazionale Architetti, ricordando che con le attuali norme e requisiti di selezione, per lo più economici, solo l’1,4% dei professionisti può accedervi, citando non i dati dell’Ordine, ma quelli inoppugnabili dell’Agenzia delle Entrate. Questo perché occorrono fatturati non da studi professionali ma da multinazionali, per numero di dipendenti e una produzione di lavoro costante negli ultimi anni. In Italia più dell’87% degli studi professionali tecnici è composto da un professionista e uno, al massimo due, collaboratori saltuari. Ciò non per ristrettezza mentale, ma essendo un’attività precaria chi la pratica non è in grado di garantire la sopravvivenza per se stesso, figuriamoci per gli addetti.

Il nuovo Codice, emanazione della Direttiva UE 2014/25, che peraltro nelle varie indicazioni recita: “Occorre infine ricordare che la presente direttiva lascia impregiudicata la libertà delle autorità nazionali, regionali e locali di definire, in conformità del diritto dell’Unione, i servizi d’interesse economico generale, il relativo ambito operativo e le caratteristiche del servizio da prestare, comprese le eventuali condizioni relative alla qualità del servizio, al fine di perseguire i loro obiettivi di interesse pubblico” non tiene conto dell’anomala situazione italiana, caratterizzata da un alto numero di architetti ed ingegneri, ma si rivolge principalmente ad una élite economica che punta più sulla quantità di opere che sulla qualità.

Altro aspetto è l’elenco nel curriculum dei lavori riferiti unicamente agli ultimi 5 (3 anni nei casi più estremi) motivandolo erroneamente con l’apertura ai giovani, che però sono “protetti” dall’obbligatorietà della loro presenza nelle ATI e non sono protetti con l’esclusione dai “giri di potere” consolidati. Snaturando l’etimologia stessa dell’espressione “curriculum vitae”. In sostanza si tende attualmente, e anche col nuovo Codice, non solo a favorire un ristretto numero, ma a far partecipare e vincere sempre di più chi già lavora molto e con continuità.

Facendo un identikit, l’affidatario che verrebbe fuori dal vecchio e anche dal nuovo codice è un architetto o ingegnere di 45/50 anni, benestante, che lavora ininterrottamente da 10 anni, non importa con quale risultato. Tra l’altro questa obbligatorietà nel dimostrare una continuità di lavori, escludendo drasticamente quelli prodotti dieci anni prima, ha comportato la partecipazione e offerta di ribassi sino all’80% di studi al solo fine di rimanere in pista. Questo senza nessuna garanzia di vera qualità progettuale e neanche di garanzia di lavori fatti presto e bene: la lunga sequela di opere incompiute denunciate dall’Anac, anche con firme considerate importanti, ne è la prova.

Proprio in questi giorni sono presenti bandi di progettazione: il Comune di Gubbio ha bandito una gara di progettazione di restauro architettonico e adeguamento impiantistico al massimo ribasso. Le innovazioni tecnologiche proposte, prima fra tutti il B.I.M (Building Information Modeling), un contenitore digitale in progress di informazioni ancora poco sperimentato, a eccezione del Provveditorato della Lombardia ed Eni, non possono dirsi risolutive.

Altro aspetto potenzialmente problematico sono le commissioni esaminatrici, motivo per cui verrà istituito un Albo nazionale dei Commissari di gara presso l’Anac e si auspica vengano scelti con criteri leggermente diversi da quelli sinora adottati.
Occorrerebbe viceversa che i requisiti fossero quelli della pregressa qualità progettuale basata sulla puntualità formale e temporale, la completezza del corredo di elaborati, le approvazioni incondizionate e il non aumento di costi.
A questo punto paradossalmente per le gare non di grande importo, ma di rilevanza architettonica tanto varrebbe tornare persino all’“intuitu personae”, praticato in modo non poi così disastroso ante Merloni. Sempre ovviamente con la sussistenza di requisiti comprovati da atti e certificazioni di ottime prestazioni pregresse ultimate nei tempi previsti e senza significativi aumenti di costi.

Con questi paletti si scremerebbe un quantitativo non indifferente di progettisti lobbisti degli incarichi più che della qualità, lasciando il campo a chi pensa che l’architettura sia al servizio dell’uomo, della bellezza e non degli interessi di parte.

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Roma, Piazza di Spagna pedonale è solo un palliativo al degrado?

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Per carità noi cultori della “Bellezza”, siamo felicissimi della pedonalizzazione totale di piazza di Spagna. Un provvedimento del genere ‘fa fino e non impegna’ si diceva una volta dalle mie parti, nel senso che non può trovare acerrimi oppositori (se non rischiando di passare come trogloditi) e non costa niente tranne che per le brutte, ma regolamentari, paline.

Il rispetto dei valori architettonici e paesistici dev’essere però totale per non risultare un palliativo ed effimero rimedio al degrado, quindi va completato con la cura e vigilanza dell’arredo urbano – vedi rimozione di inidonee insegne, fioriere di cemento, antenne selvagge, recinzioni di plastica arancione del cantiere a lato piazza, selciato sconnesso. Soprattutto con la possibilità di godere a 360° della splendida Piazza senza intoppi visuali di ogni genere costituti da bivacchi umani ad uso turistico e commerciale, come del resto prevedeva la Legge 1497/39 sulla protezione delle Bellezze naturali ancora oggi citata in sentenze, che proteggeva e vincolava tra l’altro: i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale e le bellezze panoramiche considerate come quadri naturali e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze.

Questo vale non solo per il “Tridente” ma anche per le vie che portano a piazza Farnese, diventate nel tempo un emporio del “tarocco” (altro che made in Italy) con negozi sempre più invadenti sulla strada e maglie calcistiche appese a mò di bandiere, tali da impedire il fondale dell’altra fantastica piazza.

Si dovrebbe insomma creare un “sistema” delle piazze simbolo di Roma (e non solo) da godere integralmente cielo-terra prima che l’Unesco non ci declassi le nostre “uniche” città.

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Venezia, le grandi navi e la non soluzione

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Venezia mi fa tornare ragazza,quando 30 anni fa, giovanissima consigliere di Italia Nostra, insieme a Bagatti Valsecchi, Fabrizio Giovenale e Antonio Jannello, ci occupammo dei pericoli che la Laguna stava correndo per via di Piani urbanistici scellerati e del problema della profondità delle Bocche di Porto al Malamocco, ma adesso tiriamo un sospiro di sollievo: tante battaglie, comprese quelle dell’infaticabile Lidia Fersuoch (Pres. Italia Nostra Venezia), sono da ieri state vinte…o no? Finalmente i mostri marini moderni non s’inchineranno più a San Marco?

Mah, forse è un altro provvedimento che fa fino e non impegna…eh no questa volta non fa neanche fino, perché il problema è solo spostato più in là. Ed impegna, perché ci costa più di 115 milioni che potrebbero essere impegnati per il recupero architettonico della città, non solo della parte aulica, ma anche di quella cosiddetta Venezia minore così bella, così struggente, così degradata…e comporta anche la perdita del paesaggio, del quadro… (sempre per citare la L. 1497/39) che imponeva di tutelare “le bellezze panoramiche come quadri naturali e così pure i punti di vista accessibili dai quali si goda lo spettacolo di queste bellezze”. Legge che ha consentito di conservare ancora quel poco che resta di integralmente fruibile dei Beni Culturali senza compromessi.

E’ veramente da film horror osservare questi mostri marini a ridosso della ex Repubblica (Stai) Serenissima, tronfii e rigurgitanti di ansiosi amanti della città lagunare, pronti a vedere la città dalle sdraio, oppure a scendere pochi minuti a consumare un gelato, per ritornare appagati sulla nave-città. Se i crocieristi amassero davvero Venezia, come sostengono gli armatori, dovrebbero essere i primi a porsi il problema di tutelarla e quindi compiere un viaggetto in treno, scendere a S. Lucia e godersela a piedi, magari soggiornando più giorni (per coloro che non si possono permettere un hotel in città, ci sono quelli poco costosi nelle vicinanze). Invece il turismo becero, che in Italia non porta niente al nostro Pil, viene incoraggiato anche nella splendida ed “unica” Venezia. Ennesimo patrimonio che rischia il declassamento o l’esclusione dai siti Unesco, così come Caserta, Pompei ed altre unicità italiane.

Dopo anni di studi, perizie, consulenze e comitati, costati alla collettività fior di quattrini su come salvaguardare la Laguna, si è arrivati ancora una volta ad una non soluzione. E così come scrive e ricorda la già citata Lidia Fersuoch, il Via (Valutazione Impatto Ambientale) del 1998 diede esito negativo anche al Progetto Mose, provvedimento purtroppo mai reso attuativo per via del non esecutività del successivo decreto, per vizi formali. La sostanza però resta ed i vari studi di società d’ingegneria indipendenti, come la francese Principia, hanno dimostrato la non esaustività del decantato progetto Mose. In più il Canale della Contorta, alternativa ieri proposta per il passaggio delle grandi navi,sarebbe un Canale dei Petroli bis pronto a distruggere i caratteri morfologici della Laguna Centrale per sempre.

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Turismo: serve una politica di informazione e programmazione

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Nella più classica tradizione del tormentone estivo, al pari del motivetto orecchiabile, dell’accessorio trendy o del gergo urbano (che qualificano subito chi ne è costantemente seguace), anche quest’anno è stato riproposto da più parti, da amministratori, politici e intellettuali, il tema del numero chiuso nelle località turistiche di grande valenza ambientale e nelle città d’arte. Ma perché principalmente d’estate e non durante i mesi invernali?

Perché in estate, per ovvi motivi, oltre che il numero esorbitante, impressiona lo “sbracamento” di questi novelli barbari anelanti di poggiare per pochi istanti le loro sudate estremità sui selciati o pavimenti storici. Solo che, come ricordava Giorgio Bocca in un memorabile articolo su Repubblica del luglio 1987 su Firenze, ove migliaia di turisti mordi e fuggi fossero la causa principale del degrado, del decadimento e della poca attrattività per un altro turismo: più consapevole e a ritmi più lenti ed alla fine più redditizio.

Da allora nulla è cambiato, anzi si sono susseguiti ogni estate appelli da parte di sindaci e maestri del pensiero, sempre poi a fine settembre caduti nell’oblio.

I fanatici del politically correct a fronte del paventarsi di limitazioni d’accesso, oppongono i motivi dell’accessibilità a tutti senza limiti sia per quanto riguarda eventuali ticket d’ingresso, sia per l’eventuale numero programmato. A costoro occorrerebbe ricordare che le nostre città d’arte e le località amene devono essere vive, vissute costantemente e non assediate e violentate. Citando l’ex sindaco di Capri Ciro Lembo, che nel 2009 commissionò al Censis un’indagine sulla sostenibilità dei flussi turistici, “la pressione è troppa, è come far entrare dieci litri d’acqua in una bottiglia di un litro, siamo costretti a regolare anche il traffico pedonale”.

Giustissimo, tenuto conto che questo tipo di turismo, a chi è come me testimone oculare frequentando costantemente l’isola per motivi professionali, non vi arriva né per vedere il mare da via Krupp, la Certosa di S.Giacomo o Villa S.Michele, ma per osservare chi c’è dei personaggi da gossip seduto ai tavolini dei bar della Piazzetta. Lo stesso vale per Firenze, dove in oltre 10 anni di frequentazione agli Uffizi, mi sono spesso imbattuta in presunti fugaci estimatori delle opere d’arte che una volta usciti si sdraiavano sulle panche di pietra sbocconcellando pizzette e consumando lattine (quest’ultime poi regolarmente abbandonate sul piazzale). I miei richiami, diretti ed indiretti, coinvolgendo vigili ed autorità varie, sono sempre andati vani.

Gli oppositori alle varie misure per contenere il diffondersi di questo turismo che assume proporzioni catastrofiche e dannose per il nostro territorio, sia storico che ambientale (i danni non solo sono materiali ma anche d’immagine, tenuto conto che le foto del degrado hanno fatto il giro del mondo), dovrebbero capire che la concentrazione in pochi mesi di un turismo che non è povero di risorse, ma di cultura, è lo stesso che spende come minimo 1000/2000 euro su una Grande Nave o che non disdegna pagare 80€ per un concerto di una pop star.

Un euro in più per entrare in un museo e starci magari una mezza giornata anziché 1 oretta, ma in contemplazione serena ed appagante, così come un breve soggiorno sulle nostre coste anziché una fugace e stressante toccata e fuga nelle località modaiole, dovrebbero essere l’indicazione che Regioni ma soprattutto Enti come Enit dovrebbero diffondere ai vari turisti durante tutto l’anno. D’altra parte la calca e l’assieparsi possono anche essere potenziali fonte di pericolo e così come nelle sale dei teatri, concerti e per convegni pubblici viene disposto, su indicazioni del ministero dell’Interno (dal D.m. del 30/11/83 al D.m.19/8/96) e con tanto di controllo dei Vigili del fuoco, un numero massimo di persone consentito per la capienza dei locali, non si vede come non si possa, per analogia, applicare lo stesso principio. Nessuno mi risulta si sia mai risentito per essere stato allontanato anche da eventi gratuiti, tant’è che ormai vige il principio della prenotazione, come ad esempio a Torino al frequentatissimo Circolo dei Lettori. Ben lieta fui, e lo dissi pubblicamente, dell’accorpamento tra Ministero dei Beni Culturali e Turismo, tenuto conto del legame imprescindibile anche dal punto di vista economico che ci dovrebbe essere tra queste due realtà, ma dalle parole occorre passare ai fatti con una politica di informazione e di programmazione.

Una specie di “Viaggiare informati e a codici”, insieme ad una programmazione concertata con i vari Tour Operator, italiani ed esteri: una sorta di turismo a tema, suggerendo itinerari e mete per le varie borse, le varie aspirazioni e consigliando i periodi a seconda delle località indicate. L’Italia è ricchissima di borghi, centri antichi, castelli, rocche che uniscono tra l’altro cultura ed enogastronomia di qualità a prezzo contenuto, ma ahimè sconosciuti da italiani e stranieri, forse perché non frequentati da personaggi di moda. Ma se questo è il problema chiediamo al limite a uno di questi novelli condottieri, di posare (gratuitamente) per una foto ricordo nel bar del paese. In questo modo forse il nostro Rac (ritorno economico sugli asset culturali) potrebbe portare a risultati soddisfacenti non solo in termini relativi ed assoluti, ma anche con tutti i benefici diretti ed indotti di un comparto fondamentale per il nostro Paese.

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Beni culturali, morte o riuso? Perché i talebani della conservazione sbagliano

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L‘ipocrisia che opprime, come una cappa, il nostro Paese non risparmia, anzi alberga incessantemente, nei Beni Culturali, alimentata da pseudo intellettuali, politicanti e poteri forti. L’apice si è toccato nella disgustosa vicenda delle statue inscatolate, ma si alimenta quotidianamente, con un melassa disgustosa di luoghi comuni e parole vuote sul tema cruciale delle destinazioni d’uso.

Ogni proposta concreta di riuso viene tacitata come lesiva della dignità del bene architettonico, come oltraggio al monumento e al bene comune. Gli spazi, secondo costoro, andrebbero unicamente recuperati per usi “cosiddetti sociali” oppure unicamente museali, per non apparire impropri, ponendo quindi discriminanti ideologiche e modaiole. Proposte sconcertanti di uso “politicamente corretto”, ma inadeguato per il bene architettonico, vengono sovente appoggiate da gruppi finanziari che, per rifarsi la verginità, sposano idee da centri sociali, velleitarie quanto enormemente costose per la collettività, che dovrebbe poi sostenerle.

Tenuto conto che il debito pubblico sale e non c’è nessuna volontà di ridurre spese, privilegi di casta, prebende, indennizzi, stipendi faraonici, vitalizi, doppie e triple pensioni, corruzione, parcelle stratosferiche di progettisti proni al potere, ben vengano privati illuminati che, anziché consumare ulteriormente il suolo, come volevano fare gli speculatori a Capo Malfatano in Sardegna, investano sul recupero.

Viceversa coloro che spesso propongono inutili quanto onerosissime destinazioni, corredate da brutti progetti, sono gli stessi appartenenti a ad una casta politico/finanziaria intellettualoide che spreme le esangui perché dilapidate risorse pubbliche. Il mix è sovente letale ed il risultato è paragonabile allo speculatore puro dell’Italia immobiliarista/palazzinara anni 50, anzi l’inutilità di certe proposte, oltre la bruttezza del restauro, o meglio ristrutturazione, sono un insulto a quella cultura che costoro invocano a sproposito.

Una delle poche menti illuminate è lo storico del Restauro Bruno Zanardi che a più riprese si è pronunciato nella tutela attiva e non museificante delle città, dicendosi favorevole all’uso abitativo di caserme, rocche, etc… Perché l’obiettivo è la conservazione, la tutela ed il riuso intelligente attuato attraverso un rigoroso restauro; e per riuso intelligente intendo anche quello, perché no, con ritorni economici per la collettività.

Cosicché lo straordinario, per numero e bellezza, patrimonio demaniale italiano, giace da decenni nel degrado in attesa d’una destinazione d’uso appropriata, non solo dal punto di vista conservativo ma anche politico anzi “politicamente corretto”. Addirittura, i talebani della conservazione (non certo le Soprintendenze), sono poi gli stessi che impediscono di fatto il restauro, s’indignano persino quando nei saloni delle feste dei palazzi storici, vengono organizzati eventi o quando dimore storiche vengono riusate per le stesso nativo scopo residenziale.

Ora gli addetti ai lavori sanno benissimo che in una rifunzionalizzazione, occorre osservare scrupolosamente (pena la non ammissibilità del progetto) la normativa per la singola destinazione d’uso, e questo vale sia per uso cosiddetto sociale che privato. Molti storici poi, assimilano i quadri, le statue, gli affreschi al patrimonio architettonico: ma la grande differenza tra queste espressioni d’arte è che le prime sono state create per il godimento visivo, l’edificio storico è stato creato non solo per essere visto, ma per essere vissuto nelle varie funzioni residenziali o terziarie, con all’interno persone, cose, vita reale. Anzi, più è vissuto, meglio si conserva: niente sarebbe rimasto della Reggia di Caserta o del contesissimo Palazzo Barberini di Roma se, anziché desolatamente vuoti, si fossero insediati per molti anni i militari.

Si arriva all’assurdità che il Demanio, detentore di molte pregevoli proprietà, emetta Bandi per la ricerca di immobili imponenti per le amministrazioni pubbliche, come recentemente per Brescia, Napoli, Udine e Ferrara.

Renzi a Ventotene 675 quad

L’annuncio di Renzi, di pochi giorni fa, di trasformare, ora che è in completo degrado e per cui non saranno sufficienti gli 80 milioni stanziati, il carcere borbonico di S. Stefano a Ventotene in una residenza universitaria di lusso  per l’elite europea, stride con il timore di diversi anni fa di qualcuno a trasformarlo in resort, come del resto è avvenuto in diversi paesi. Nell’isolotto di Langholmen in Svezia, negli Usa all’ex penitenziario di Boston del 1850, o in Turchia ove la catena del Four seasons ha riconvertito in hotel deluxe l’ex prigione neoclassica sul Mar di Marmara, oltre al celeberrimo Librije Hotel a Zwolle in Olanda, ricavato da un carcere del 1715. E l’elenco potrebbe continuare.

Qualcuno obietterà che il ricordo degli illustri “ospiti”, da Pertini a Spinelli, non poteva essere “vilipeso” con l’idea di un hotel, ma, poiché il fine annunciato ora è ricettivo e convegnistico, con l’apporto, magari fantasioso di elementi di contemporaneità, tanto valeva renderlo agibile diversi anni fa attraverso un rigorosissimo restauro filologico ed opportuni spazi e riferimenti artistici di doverosa memoria ai Padri della Patria.

La bellezza si può difendere, conservare ed esaltare anche con un uso “laico” aperto e non esclusivamente gravato di ulteriore spesa pubblica.

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Dolce e Gabbana e lo spot con Sophia Loren: come ristrutturare un bene protetto col fai da te

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C’è uno spot pubblicitario che è un vero capolavoro di poesia, di ambientazione, di fotografia e che tra l’altro ha una particolarità: è anche un tripudio di Oscar. Premio Oscar la splendida Sophia Loren, premio Oscar il regista Tornatore, premio Oscar il maestro Ennio Morricone. La location: Villa Valguarnera a Bagheria, ovvero una delle più interessanti dimore settecentesche, sia per la qualità architettonica del complesso, sia per il contesto paesistico; sorta nel 1712 su progetto di Tommaso Maria Napoli, architetto domenicano di cultura berniniana. Al primo impianto susseguirono, dopo il 1780, significative ed imponenti trasformazioni, specie nella parte interna, con saloni riccamente affrescati

Ma non è solo la sua magnificenza architettonica a decretarne la fama, quanto la presenza di personaggi illustri: i proprietari sono i Principi Valguarnera e Alliata, Fosco Maraini e Topazia Alliata di Salaparuta con la figlia Dacia. La villa, dopo fasi alterne di splendori e decadenza, è stata quasi interamente restaurata, anche se nelle vicinanze vi sono costruzioni non propriamente coerenti, per usare un eufemismo, con la magnificenza del contesto. Dolce e Gabbana, il cui amore per la Sicilia è encomiabile, ha quindi puntato sul fascino di questo luogo delle meraviglie, girandovi uno spot per lanciare nel mondo il nuovo profumo.

Lo spot inizia con Sophia Loren nelle vesti di padrona di casa che incede, con passo regale verso la villa ed apre il vecchio portone, seguita da stuoli di aitanti figli e nipoti che, una volta entrati all’interno, si improvvisano muratori, falegnami, carpentieri; in un crescendo di suoni e immagini travolgenti e suggestive. Sophia Loren oltre che direttore dei lavori, s’impegna anche come restauratrice, procedendo a saggi sui paramenti murari, ma anche come giardiniere lasciando (incautamente) cadere dei rami. Ovviamente gli operosi muratori lavorano, allegramente oltre che alacremente, sotto la supervisione “tecnica” di Sophia ed il tutto si conclude con un sontuoso ricevimento nei giardini della Villa. Il messaggio pubblicitario, come si sa e come ben conoscono i maestri della comunicazione, tende alla persuasione, sfruttando la convinzione che (come diceva il premio Nobel Simon) “l’uomo ha una razionalità limitata”.

Per questo la pubblicità tende a favorire scorciatoie di pensiero ed in ogni caso, pur di vendere (e giustamente secondo una logica di marketing) a veicolare sollecitazioni fuorvianti ed ingannevoli.

Cosa c’è di riprovevole in questo, peraltro bellissimo, spot? Che veicola, inconsciamente, il messaggio del fai da te, dell’autocostruzione, persino in un bene vincolato. Ovviamente nella realtà non andata così ma la “banalizzazione” pur sublime del messaggio, pur comprendendo e giustificando, qualsivoglia “licenza poetica” è quella di una squadra di volenterosi che ristrutturano senza il supporto di tecnici e procedure edilizie.

Ovviamente si obietterà che nel racconto mal si poneva il riferimento a poco romantiche pratiche burocratiche e relativi permessi, ma le capacità narrative di Tornatore avrebbero potuto prevedere l’inserimento fugace di un architetto, magari con il rotolo di carta di antica memoria. Del resto purtroppo anche le fiction televisive sovente dimenticano questo ininfluente particolare che, prima di costruire o restaurare sia necessario l’apporto di un tecnico e delle relative autorizzazioni. Di fronte al persistente fenomeno di abusivismo edilizio che raggiunge, proprio in Sicilia, proporzioni preoccupanti di oltre il 45% (dati del 2014), nonostante una forte crisi nel settore delle costruzioni, appare non educativa ed inopportuna una visione edulcorata del fenomeno presente ed anzi in aumento anche nelle altre regioni, dove il numero dei cantieri illegali raggiunge livelli preoccupanti. Nello stesso periodo 2012-2014, i valori medi dell’indice di abusivismo sono raddoppiati rispetto al triennio precedente. In Umbria e nelle Marche (dal 9 al 17,6% e dal 5,1 al 10,6%, rispettivamente), e incrementi significativi si registrano anche in Toscana (dal 7,9 all’11,5%), Lazio (dal 9,7 al 15,1%) e Liguria (dal 12,4 al 15,6%) secondo il rapporto Bes 2015.

Questi dati, sconfortanti, hanno ovviamente ripercussioni legate all’evasione fiscale, alla sicurezza dei lavoratori, alla sicurezza dei cittadini (vedi anche dissesto idrogeologico), alla qualità in generale, danneggiando imprese serie, progettisti e tutto l’indotto dell’edilizia legale in grave sofferenza dal 2007 e volano dell’intera economia nazionale.

Ovvio che gli autori, ribadisco, dell’affascinante spot, non avevano intenti criminali, ma come sostiene Andrea Zanacchi: “I messaggi commerciali attingono abitualmente elementi d’appoggio in ogni settore della vita sociale, ma lo fanno in modo selettivo e, in larga misura, deformato, proponendo ideali e stili di vita distanti da quelli reali, nonché prospettando, in genere, un mondo artificioso e spesso trasgressivo”.

Al pari delle fiction sulla medicina o sui cibi, dove l’apporto e la presenza degli operatori del settore sono parte integrante della narrazione (non c’è il fai-da-te delle operazioni chirurgiche o in quelle di cucina c’è sempre la presenza di chirurghi o chef) non si capisce perché nell’architettura e nella tutela del territorio non si debbano veicolare rispetto delle regole pur nella finzione televisiva: sarebbe un altro passo verso la dignità, la bellezza e la cultura della legalità.

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Sardegna, il collezionista d’isole e lo strano caso di Budelli

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E’ una strana e intricata storia quella dell’arcipelago di La Maddalena e del suo parco, istituito il 17 maggio del 1996, e coincidente con il territorio comunale, che amministrativamente però non ha competenza e potere decisionale, spettanti prevalentemente al ministero dell’Ambiente. Lo stesso ministero che nominò nel 2006 come presidente Giuseppe Bonanno, tutt’ora in carica ed ecologista integrale, in perenne lotta con gli altri membri del consiglio. Strana storia perché nell’arcipelago coesistono due realtà ambientali: la prima, nel capoluogo La Maddalena, con le opere pubbliche faraoniche, molte di queste incompiute o già fatiscenti, volute da Bertolaso e le sue archistar, costate (ed inutilizzate) circa 400 milioni di euro; la seconda è una piccola isola, 1,7 km², assolutamente privata, sulla quale vigono le norme tra le più restrittive e severe d’Italia: prima come Tb (Riserva generale), ora proposta come Ta (Riserva integrale).

Budelli_spiaggia del cavaliere

Dopo il fallimento dell’immobiliare Gallura srl, che l’aveva acquistata, il tribunale di Tempio aggiudicò, dopo asta pubblica, l’isola allo stravagante Ceo della Barclays, sedicente appassionato di isole incontaminate ed ecologista. Del progetto di Michael Harte, l’eccentrico proprietario, poco si sa e poco ne sanno i membri del consiglio; da una parte un approccio non formale della normativa italiana, assenza di un master plan o progetto di fattibilità, ma solo render approssimativi, dall’altra una diffidenza ed un pregiudizio totale sulle reali intenzioni del magnate neozelandese, impegnato a creare nell’isola un centro di ricerca per le biodiversità, unico al mondo.

Come recita però la sentenza del Consiglio di Stato n. 1854/2015:”L’appartenenza alla proprietà privata ha comunque sempre comportato l’applicazione delle norme che nel tempo hanno preservato i valori ambientali e paesaggistici dell’isola e che rimangono in vigore nella loro interezza indipendentemente dall’esercizio della prelazione da parte dell’Ente parco, dato che la tutela prescinde dalla titolarità della proprietà e dal relativo regime, pubblico o privato che sia. Tali norme di tutela sono contenute, oltre che nel d.p.r. 17 maggio 1996, nella stessa legge quadro sulle aree protette, n. 394 del 1991 e nella legge n. 10 del 1994, nei provvedimenti che configurano il regime dei pesanti vincoli paesaggistici, ambientali e idrogeologici (che, tra l’altro, impediscono lo sbarco se non su indicazione delle guide dell’Ente, il transito su buona parte delle spiagge e l’accesso all’arenile“.

Quindi, qualunque privato volesse acquistare l’isola, dovrebbe sottostare alle rigide regole di salvaguardia e di inedificabilità e sottoporre il suo progetto ai vari organismi di tutela. Non del tutto rassegnati all’idea molti isolani, primo fra tutti il guardiano, che quell’unico privato venuto da lontano potesse finalmente, influire positivamente (ed economicamente) sul destino di un’isoletta bramata solo a parole ma nei fatti dimenticata da tutti. Non ha giovato la conflittualità permanente nel consiglio direttivo, causata dalla componente più integralista, rappresentata dal presidente, teso a elevare a livello massimo la tutela da Tb a Ta, vietando di fatto ogni permanenza umana sull’isola e l’altra componente, seppur ecologista ma possibilista nel pensare ad una sorvegliata e monitorata attenzione alla “pressione antropica”.

Pressione che si manifesta, specie d’estate, sulla spiaggia del Cavaliere con lo sversamento di gruppi di centinaia di turisti da imbarcazioni di ogni genere. Turisti non tutti rispettosi della natura e ai quali purtroppo non si riesce del tutto ad impedire, nonostante il lodevole impegno delle guardie del parco, ogni genere di nefandezza, dall’abbandono di cartacce, lattine, plastica e rifiuti organici umani (nell’isola mancano totalmente  servizi igienici). Del resto gli isolani, anche i componenti del parco, non intendono rinunciare alla vocazione turistica in tutte le isole dell’arcipelago, turismo che rappresenta la più importante voce economica per il territorio che tanto incontaminato non è; per lo meno per le opere pubbliche già citate, cui non sembra sia stata fatta una altrettanto vivace campagna di opposizione.

Viceversa proposte di un turismo sostenibile, recupero delle piccolissime ma significative strutture ex militari con i materiali autoctoni, sentieri sospesi per non danneggiare la flora, percorsi vita con utilizzo di materiali naturali e congruenti e soprattutto una disciplina ferrea ed un controllo degli accessi, oltre un minor uso dei natanti da diporto, potrebbero essere una soluzione ottimale per preservare la natura e l’economia dell’isola. Economia in gravi difficoltà tanto da far rifiutare al direttivo del parco, dopo la rinuncia del magnate Harte, all’assegnazione decisa (e il 17 aprile sospesa), dal tribunale di Tempio del diritto di prelazione e gestione di Budelli, la cui decisione definitiva avverrà il 17 maggio, esattamente vent’anni dopo l’istituzione del Parco. Una vicenda che purtroppo non è destinata a concludersi positivamente se non si porrà come base il principio che privato o pubblico che sia, il rispetto della natura e della bellezza non deve mutare, e chiunque siano i fruitori principali, Stato, banchieri o associazioni devono attenersi a quelle regole di attenzione alla salvaguardia attiva con il recupero dell’esistente per far coesistere armonicamente uomo e natura.

 

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Beni culturali, riusiamo le arene esistenti. Anche il Colosseo

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3573839-9788845282089Al Salone del libro di Torino Marcello Sorgi ha presentato il suo ultimo libro-provocazione ‘Colosseo vendesi’, dove si ipotizza la vendita del nostro monumento simbolo ad uno sceicco per 1000 miliardi. Provocazione che, a detta dell’Autore, tanto non sarebbe, se è vero che secondo un suo minisondaggio il 40% degli italiani non si mostrerebbe così sfavorevole se questo “sacrificio” servisse a risolvere definitivamente il nostro pauroso deficit.

Questo fatto è di per sé sconcertante e non è dato sapere se chi è favorevole sia persona di media cultura, cittadino esemplare solo esasperato dalle troppe tasse e dai continui scandali, oppure uno di quei soggetti che preferiscono passare le domeniche alla tv ed il massimo dell’ardimento culturale è aggirarsi tra le viuzze di un outlet – finto borgo antico – anziché visitarne uno autentico.

Certo è che l’affezione ai nostri Beni culturali, nonostante il continuo parlarne, appare un esercizio di pura retorica e che non produce alcun significativo beneficio alla salvaguardia attiva del nostro patrimonio architettonico. Lo sterminato tesoro di edifici storici demaniali quasi 50.000, al di là dall’essere venduti e in qualche caso svenduti, possono viceversa costituire una risorsa costante e duratura: una vera e propria rendita senza intaccarne il decoro e la bellezza.

Lo stesso Colosseo, restaurato per opera dello sponsor privato Della Valle, potrebbe riacquistare una maggiore dignità se, anziché finti gladiatori, venditori di paccottiglia cinese, guide tarocche, fosse il fulcro di attività culturali sceniche di altissimo livello; una volta ripristinata l’arena, inopinatamente e scelleratamente rimossa in due tempi nel 1874 e nel 1938 (ne scrissi qui).

Il non senso è che vengano costruite brutte arene, discutibili teatri, improbabili centri convegni, pretenziosi palazzi delle feste anziché riusare gli esistenti già armonicamente inseriti nell’ambiente, ma la vanità e prosopopea delle archistar e dei loro committenti volti a passare alla storia per le grandi opere, non ha fine.

Altro controsenso è che s’invochi il non consumo del suolo, il risparmio energetico e soprattutto il turismo culturale, dovuto principalmente ai nostri monumenti, quando gli stessi non vengono recuperati; dubito che gli stranieri vengano attratti dal nuovo teatro dell’opera a Firenze o di Verbania o dai grattacieli di Torino o dall’ipotizzato waterfront di Reggio Calabria.

Il paesaggio, altro elemento da preservare come i monumenti, già previsto dalla lontana Legge 1497/39 e successivamente dal D.Lgs 42/2004 e s.m.i., viene costantemente compromesso da nuove opere finite mai finite, mal progettate e mal costruite, senza che nessuno paghi le conseguenze di danni irreversibili, uno stupro continuo, un monumentificio perpetrato impunemente.

Un caso emblematico e frutto di una schizofrenia collettiva è quello della aberrante demolizione avvenuta nel 2005 dell’anfiteatro di Sezze di Marcello Piacentini, tutelato e considerato uno degli esempi più interessanti di osmosi tra architettura e natura (i gradoni erano scavati dalla roccia), per costruirne uno nuovo ma inagibile non perché incompiuto ma perché inadeguato il progetto per la destinazione d’uso prevista e per questo oggetto di strali da parte dell’Unione Europea che chiede la restituzione dei finanziamenti

Al di là delle sanzioni non interamente previste e quasi mai applicate, questo spreco di suolo, di risorse economiche, di memoria, di storia, costituisce il vero assalto alla grandezza, alla credibilità ed alla Bellezza del nostro Paese.

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Verbania e le ‘pietre dello scandalo’ dell’ennesimo centro congressi

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Nei giorni scorsi è stato finalmente inaugurato il contestatissimo nuovo “Centro Congressi/Teatro Maggiore” di Verbania (Cem), città lacustre di circa 31mila abitanti, dotata di un considerevole contesto paesistico ambientale, il Lago Maggiore, oltre che di emergenze architettoniche significative.

Tante nella zona le dimore storiche, da quelle opulente dei Borromeo a quelle, a volte curiose, ville in stile eclettico con immensi parchi, agli alberghi meta della nascente borghesia industriale e di un turismo internazionale con ospiti quali Leopoldo II del Belgio, il maharaja di Burdevan del Bengala, i finanzieri americani Vanderbilt, Carnegie, Rockefeller, Morgan, e, nel passato, frequentati da Gabriele D’Annunzio ed Eleonora Duse, George Bernard Shaw, Rothschild, tutti appassionati delle sponde del Lago Maggiore favorito anche dalla strada del Sempione voluta da Napoleone.

Viceversa per il Centro eventi multifunzionale, pensato nel 2007 nella piazza Mercato, la cui collocazione, oltre alle dimensioni e ai costi, ha avuto vicissitudini e diatribe accese e ha riguardato varie amministrazioni di diverso colore politico, convinte nel voler lasciare un forte segno di “riconoscibilità”. Polemiche invece da parte della maggior parte dei cittadini, come sostiene Renato Brignone (Lista civica), da sempre contrario all’opera.

A prescindere dai costi lievitati e dai ritardi considerevoli, dovuti anche a un contenzioso tra imprese e progettista, il madrileno Arrojo, quest’opera si pone come l’ennesimo Centro Congressi del Verbano, luogo in cui quasi tutti gli hotels ne sono dotati, per non parlare del Palazzo di Stresa da 700 posti o la cosiddetta ex Fabbrica da 600.

Il lago Maggiore e l’intero bacino, decaduta la parziale vocazione industriale e non più fiorente quella della villeggiatura, hanno puntato, come molti centri turistici, a un inflazionato business congressuale; infatti, per evitare polemiche, si è pensato in corso d’opera di conferirgli anche una destinazione teatrale, senza però le previste caratteristiche e dotazioni.

Il valore aggiunto di questa e di molte aree simili che si propongono come maxi sedi convegnistiche è il paesaggio e l’architettura che nel tempo si è tipicizzata, ma l’ego ipertrofico di molti progettisti e politici li spinge a lasciare un segno significativo decontestualizzato.

In realtà la Provincia del Verbano-Cusio-Ossola in forte declino economico, avrebbe potuto valorizzare le architetture esistenti come l’ex Colonia Motta, l’Eden, Villa Poss: tutte strutture in inarrestabile degrado senza una benché minima previsione di recupero e riconversione; pur di non avviare un processo di recupero e rifunzionalizzazione si è optato per la costosa e deleteria prassi del “demolisci e costruisci ex novo”.

Anzi, dopo aver abbandonato l’ipotesi del sito di piazza Mercato, di male in peggio, si è edificato sulla confluenza di un torrente con il Lago Maggiore, quindi ad alto rischio di esondabilità, dopo aver demolito un’arena adibita a teatro costruita pochi anni prima per più di 2 milioni di euro, come a Sezze, comune in provincia di Latina.

Le demolizioni devono essere nel Dna dei verbanesi, se persino il Teatro ottocentesco di Intra fu raso al suolo negli anni ’60 creando una disarmonia nella piazza che aveva proprio in questo edificio il suo “centro compositivo”.

L’alibi di esigenze di spazio non regge perché i consistenti volumi del Cem (ora chiamato ‘Il Maggiore’), che si percepiscono dall’esterno, non corrispondono alla cubatura utile all’interno, inadeguata a detta dei fruitori per le varie attività ad esso connesso.

Infine la gara relativa alla gestione bar ristorante è andata ben due volte deserta, come ricorda il pentastellato Roberto Campana, contrario all’opera ma propenso ora, vista la gran cifra investita, a farlo funzionare al meglio.

Il tema della conservazione e tutela del Paesaggio a quasi 80 anni dalle Leggi di Tutela L. 1089/39 e L. 1497/39 e della “valorizzazione” del patrimonio esistente, quando questo termine aveva il giusto significato, non sembra ancora percepito come centrale nelle buone pratiche della politica, ma puro esercizio retorico e, per ironia della sorte, a Verbania esiste anche il Museo del Paesaggio.

La “tutela degli interessi diffusi”, come inteso dalle Associazioni ambientali, in primis Italia Nostra, individuata ai sensi delle vigenti disposizioni in materia di ambiente e danno ambientale” (articolo 144, comma primo, del Codice Urbani) dovrebbe essere il collettore per tutti gli intenti e gli obiettivi con il fine ultimo della conservazione della Bellezza.

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Il Saloncino del Libro al Valentino, un’occasione per il recupero di Torino Esposizioni

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Chi mi legge da tempo, sa che ritengo plausibili, anzi auspicabili, se non indispensabili, le riconversioni di edifici storici, purché ovviamente non vengano alterati i valori architettonici e non si leda la dignità ed il decoro del Bene. I cambi di destinazione d’uso andrebbero valutati attentamente, caso per caso, e la conoscenza del layout distributivo e della normativa che disciplina le varie funzioni possono aiutare.

C’è un punto che non mi convince però, quando ad esempio, con un investimento ragionevole, si può confermare o al massimo ampliare adeguandolo un bene architettonico nella sua vocazione originaria e viceversa si propongono soluzioni bizzarre di nuovi usi con costi esorbitanti.

Un caso eclatante è il Palazzo delle Esposizioni a Torino: struttura che si trova immersa nel Parco del Valentino, a poche centinaia di metri dal Borgo Medievale, costruito per l’Esposizione del 1911, e di cui ho già parlato a proposito di Expo.

To-Esposizioni fu progettato nel 1938, in successivi step, anche a seguito dei bombardamenti della Raf, da Ettore Sottasts sr, Nervi e Morandi, con l’intento di creare un modernissimo complesso fieristico per l’industria italiana, dopo l’iniziale destinazione a Palazzo della Moda. Per questo furono creati altri padiglioni, con grandi luci, ideali per esporre auto, camper e oggetti ingombranti, per molti anni fu la sede del Salone Internazionale dell’Auto, tra i più importanti d’Europa e del mondo. Il valore aggiunto di questo complesso fieristico, oltre la splendida architettura razionalista, è la posizione, esaltata dallo scenario del Parco del Valentino, oltre che dal fondale della Collina torinese.

Quando si decise, nel 1984, di trasferire il Salone dell’Auto nella Sala presse del Lingotto mi ricordo che, parlandone con il Presidente Bertolotti, ci venne spontanea la considerazione che gli stranieri uscendo dalla manifestazione, si sarebbero trovati di fronte una barriera di case fatiscenti anziché una corona di verde.

Dopo la perdita di eventi importanti con sede a Torino Esposizioni, puntando solo ed esclusivamente sul Lingotto, questa struttura bellissima è stata lasciata degradare salvo poi ipotizzarne trasformazioni e cambi d’uso fantasiosi ed improbabili (biblioteche, sede universitarie con residenze ed altro ancora) di fatto manomissive dell’architettura originaria che ne facevano aumentare a dismisura i costi. Se si eccettua l’episodico (e anche qui esorbitante per costi) riadattamento a palazzo dell’hockey, in occasione dei Giochi olimpici.

Questo è, ahimè, ricorrente: la manutenzione ordinaria e straordinaria non paga e l’adeguamento impiantistico non fa notizia mentre la chiamata di “archistar” per un’ipotesi di spesa di ca. 200 milioni, con radicale trasformazione, attira i titoloni. Ancora non mi sono ripresa dallo scempio effettuato dalla pur brava in tante occasioni Gae Aulenti per la ristrutturazione del Palazzo a Vela di Rigotti-Levi, dove è stato stravolto il motivo della grande facciata leggera e trasparente che non mortificava la splendida copertura a “fazzoletto”.

Un altro valore aggiunto di Torino Esposizioni poi è l’annesso teatro, uno dei più grandi della città, che attualmente assolve anche la funzione, negli ampi spazi adiacenti, di Scuola di Danza  conosciuta e rinomata a livello internazionale. L’attuale Presidente della Fondazione, Gian Mesturino, ne chiede da anni il restauro e la dotazione di servizi essenziali per continuare a dispensare le funzioni minime. L’ampia Sala del “Teatro Nuovo” può essere inoltre facilmente assimilata anche a Centro Congressi quindi in perfetta simbiosi con l’attiguo Centro Fieristico.

Forse però c’è una risposta nella recente fuga dei grandi editori da Torino e dal Lingotto; i piccoli editori italiani ed i locali, animati giustamente di orgoglio sabaudo, potrebbero contrapporre un Saloncino del Libro, puntando proprio sul tema dell’ambiente, del territorio, delle città, della bellezza ed estendendo spazi ed Eventi a quello che fu la prima Esposizione Universale: cioè il Borgo Medievale ed anche il vicino Castello del Valentino, di Carlo ed Amedeo di Castellamonte, già usata a fine ‘800 come Esposizione dell’Industria per poi diventare definitivamente prima Regia Scuola degli Ingegneri e quindi Facoltà di Architettura.

Una serie di opportunità quindi per una rispettosa e consapevole rinnovata funzione per un complesso che deve essere solamente ristrutturato per le funzioni per cui era stato progettato nel 1938: nel segno dell’innovazione, dell’ingegno italiano e della Bellezza.

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Terremoto, quei borghi delle meraviglie e delle tragedie

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Ci sono tre elementi che rendono questo ennesimo terremoto un evento tipicamente italiano: i borghi, l’iperproduzione di leggi e la famiglia. Il primo elemento fa sì che l’Italia sia l’indiscussa primatista per quantità di Beni Culturali (e tra questi i borghi) ma la discussa conservatrice di tale patrimonio. Il secondo è che siamo i più prolifici giuristi, tanto da aver elaborato più di 70 leggi per l’edilizia antisismica. Il terzo è che il valore delle tradizioni famigliari porta nei paesi d’origine, specie nelle vacanze e festività, ai ricongiungimenti.

Riguardo ai borghi, forse non ce ne rendiamo conto, ma sono connotativi dell’Italia tanto quanto il melodramma, la moda e la Ferrari. Me ne accorsi anni fa quando, invitata ad esporre dei progetti a Nanchino, quello che interessava maggiormente era il restauro di un piccolo borgo. Da noi però è solo da pochi lustri che i centri storici delle città vengono appetiti e risultano attrattivi per la destinazione residenziale. Stessa sorte nei paesi, dove interi medi e piccoli centri venivano abbandonati o per la città o per costruire, a pochi km, nuovi agglomerati di villette senz’anima e senza architettura.

Si calcola che oltre 6.000 siano i borghi totalmente abbandonati, dal Piemonte alla Sicilia. Laddove per esempio a Salemi, resa in parte inagibile dopo il terremoto del Belice, fu lanciata la provocazione della vendita simbolica a 1 euro di ogni singola unità abitativa. Sulla stessa stregua si sono lanciati amministratori locali, con scarso successo, pur di non lasciar morire questi piccoli gioielli che, sebbene trascurati dagli indigeni, risultano sempre conosciuti e visitati da qualche intraprendente turista, specie straniero.

Il secondo elemento è il numero esorbitante di regi decreti, leggi, circolari: più di 70 riguardo l’antisismica nelle costruzioni, emanate dal 1627 ai giorni nostri. La prima infatti fu varata in Campania dando nome ad un sistema progettuale costruttivo per l’epoca avanzato: il “baraccato alla beneventana”, cui seguì, nel marzo del 1784, sempre nel Regno delle due Sicilie, e per opera di Ferdinando di Borbone, una Legge specifica di norme e modalità per rendere sicuri gli edifici.

Dopo il devastante terremoto di Messina e Reggio del 28 dicembre 1908, che comportò la perdita di oltre 100.000 vite umane e oltre il 90% del patrimonio architettonico, fu varato il R.D. n. 193/09 che, tra l’altro, per la prima volta, individuava le zone sismiche in Italia. Si susseguirono, da allora sino al 2012, con una cadenza quasi annuale, norme di varia natura, puntuali ed esaustive; dando in certi casi il compito alle Regioni di mappare ulteriormente il territorio.

Progettisti (ingegneri e architetti) avevano quindi, con l’apporto fondamentale dei geologi, tutte le indicazioni per operare , mentre gli Uffici Tecnici dei Comuni e gli Enti posti alla vigilanza (Vigili del Fuoco, Asl, etc) per controllare. Purtroppo, spesso, la fretta, la superficialità, l’incompetenza, la corruzione, l’attenzione più alla forma che alla sostanza, faldoni di elaborati consistenti solo come peso, oltre che Direzioni Lavori disinvolte e prone a costruttori disonesti, collaudatori collusi e compiacenti, hanno fatto sì che progetti approvati ufficialmente, secondo il rispetto dei criteri antisismici, e regolarmente collaudati, siano stati poi causa di crolli alla prima scossa.

Le responsabilità purtroppo vengono declassate come fatalità o per magnitudo eccezionali su edifici in pietra troppo vetusti per poter “tenere” e altre squallide scusanti, mentre la tecnologia, sempre più avanzata, e una adeguata preparazione professionale, consentono di progettare nuove costruzioni e restauri indenni da sorprese e lo dico per esperienza sul campo. Il fatto poi più triste di tutta la vicenda è che in questa immane nuova tragedia una tradizione antica quanto dolcissima, e che mi riporta anche alla mia infanzia, è anche stata la strage dei bambini che andavano a trovare i nonni nei paesi d’origine. Quella che doveva essere la vacanza più serena e sicura, si è rivelata un incubo per i genitori sopravvissuti.

E poi l’immenso patrimonio di bellezza di 5 borghi e quasi 300 beni che rappresentano la cultura nel cuore dell’Italia, persi per sempre nel loro tessuto originale. La frase infatti che viene ripetuta più frequentemente in questi giorni è “dov’era com’era” mutuandola dal discorso del Sindaco di Venezia nel 1903, dopo il crollo del Campanile di San Marco che venne abilmente “ricostruito” dall’arch. Luca Beltrami, il teorico del cosiddetto “restauro storico”; tale teoria, negli anni abbandonata per un dibattito acceso su come fosse corretto scientificamente intervenire, sta riprendendo vigore, nel bene e nel male. Ma è altrettanto vero che, anziché riproporre e riprodurre l’antico nel segno della storia e dell’affettività, sarebbe più saggia e più etica, un’accurata, costante, mirata opera di seria manutenzione preventiva per la vita e la bellezza.

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Basta borghi artificiali, gli imprenditori adottino quelli abbandonati o distrutti

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Il Gruppo Percassi, nota società di costruzioni e immobiliare di Bergamo, con orgoglio ha annunciato la prossima apertura di un nuovo borgo dello shopping e del ‘bel vivere’ a Settimo Torinese, comune a pochi km dal capoluogo piemontese.

Il nuovo villaggio ha come simbolo una torre svettante, un sorte di Tour Eiffel visibile a diversi km di distanza che, come una stella cometa, dovrebbe guidare i confusi consumatori alla meta.

Anzi, nel sito si vede il paragone con la Mole Antonelliana cui gareggerà per altezza. A Torino a queste gare siamo abituati, per via della lunga polemica con i due grattacieli che hanno definitivamente cambiato lo skyline della città: quello di Intesa-SanPaolo di Piano e della Regione di Fuksas, non ancora terminato e in grave ritardo.

Ho segnalato l’annuncio del nuovo “villaggio del lusso”, perché è così che adesso li chiamano, in quanto emblema dell’ennesima contraddizione del nostro Paese, dove continuano a costruirsi borghi artificiali e si lasciano deperire i borghi naturali.

A fine agosto scrissi e ribadii anche in una diretta su SkyTg24, che in Italia ci sono oltre 6.000 borghi abbandonati e fatiscenti, molti di questi in zone a rischio sismico. Progressivamente abbandonati anche per via di un sistema fiscale che non agevola a sufficienza chi vorrebbe, non per fini speculativi, restaurarli; per via di una scuola che non ha educato gli italiani a una cultura della bellezza e della cura e amore del territorio.

Coloro che volessero investire, anziché in terrificanti villette o appartamenti, in squallidi condomini, non avrebbero che l’imbarazzo della scelta.

Solo per citarne qualcuno: da Borgo di Gilli in Piemonte, a Craco in Basilicata a Consonno in Lombardia, a Balestrino in Liguria, a Faleria, Fianello e Monterano nel Lazio.

Viceversa proliferano, sparsi in tutt’Italia, 25 (di cui 3 solo nel Lazio) “Borghi dello shopping”, che pretendono di riprodurre l’idea di un piccolo insediamento storico, un’accozzaglia di stili architettonici improbabili. Visto il grande successo di pubblico, le multinazionali del settore ce ne propineranno a breve altri 20.

Inquietante è la riproduzione a Marcianise della Reggia di Caserta, nell’outlet village che, non a caso, si chiama Reggia, per opera del Gruppo McArthurGlen, affollatissima di estasiati frequentatori, certamente più pratici dei vicoli artefatti del Borgo, delle firme degli stilisti che dell’autentica Residenza dei Borboni a firma Vanvitelli.

Preciso che non ho un pregiudizio ideologico contro gli imprenditori, i costruttori, né contro lo shopping, tanto meno contro la moda, anzi (oltre che architetto sono anche donna), ma quello che fa male ed intristisce è che a nessuno sia venuto in mente di indirizzare, anzi dirottare, investimenti verso il già costruito.

Perché non chiedere ad esempio a questi gruppi, con risorse consistenti, di adottare oltre i borghi abbandonati, adesso anche una parte dei borghi distrutti e farne un loro iniziativa benefica ed imprenditoriale?

Pochi gli esempi di successo come il Borgo Azienda a Solomeo di Brunello Cucinelli o l’albergo diffuso, anche con botteghe, del visionario imprenditore Daniel Kihlgren, che ha recuperato borghi in Abruzzo e Basilicata.

Sostengo da sempre che si può, anzi si dovrebbe, coniugare imprenditorialità, tutela e conservazione dei Beni Culturali, e occupazione, nel comune intento etico di preservare il territorio nella sua originale ed ancestrale bellezza.

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Firenze, quei gommoni su Palazzo Strozzi sono davvero un’opera d’arte?

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In questi giorni, conoscendo il mio amore per Firenze, alcune persone mi hanno chiesto cosa pensassi dell’ultima provocazione (o profanazione) alla città: l’installazione cinese di gommoni a Palazzo Strozzi. Premetto che apprezzo l’arte moderna e persino alcune estemporanee ed effimere espressioni di rottura, ma quando ho visto le foto sono rimasta sconcertata e mi sono chiesta cosa ci fa un sindaco o una soprintendenza se non riescono a far rispettare un simbolo della città.

Perché Palazzo Strozzi non è solo un importante palazzo rinascimentale, ma fu determinante per il nuovo assetto urbanistico della città e di quello che, come ho ricordato più volte, è l’esempio di come l’edilizia può diventare architettura. Palazzo Strozzi, attribuito a Benedetto da Maiano, fu fortemente voluto nel 1489 da una famiglia di banchieri con una forte propensione al mattone (dei “palazzinari” spregiudicati e illuminati ante litteram) precursori del feng shui per via della richiesta di astronomi per i giorni propizi alla costruzione ed alla giusta posizione.

Il Palazzo è tra l’altro attualmente sede principale del Gabinetto Viesseux la più ricca collezione in lingua originale (in francese e inglese di ambito storico letterario dell’Otto–Novecento, di narrativa, viaggi, memorie, biografie), documentando il carattere europeo di questa biblioteca, unica nel suo genere non solo a Firenze, ma anche in tutto il territorio nazionale, conosciuta e riconosciuta a livello mondiale.

Ma tornando all’oggetto del mio intervento, vorrei anche sapere quale metodo abbiano usato per appendere le plasticose installazioni (ah, un suggerimento per la giunta a Natale: non dimenticatevi di appendere i Babbi Natale per ricordare un importante e simbolico evento cristiano), perché o li hanno staffati o incollati, e quest’ultima soluzione non la credo plausibile perché avrebbero messo a rischio l’integrità dell’”opera d’arte”.

Ma scherziamo? E visto il “valore politico” proporrei anche al custode di stendere i panni lavati, sarebbe un – bel messaggio di pulizia – e da lì chiunque abbia fantasia può sbizzarrirsi. Il fatto più inquietante è che alcuni “possibilisti” su queste – chiamiamole – espressioni artistiche, sono pronti poi a lanciare strali per l’uso, anche temporaneo, nelle sale dei palazzi storici di eventi che, come sempre ricordo, essendo edifici sono stati costruiti per essere vissuti, ovviamente con tutte le cautele e rispettandone la dignità. Ma se una manifestazione rispettabile assume minimamente vesti anche commerciali non va bene, mentre se ha una parvenza “pseudoartistica”, allora sì?

Non c’è però peggior consigliere che l’ansia di volere giustificare ogni improvvisazione come un forte richiamo alla centralità del messaggio o ancor peggio alla visibilità e all’onore che questi “artisti” ci attribuiscono nel volersi concedere nelle nostre città con le nostre architetture che altrimenti non potrebbero essere conosciute nella loro straordinaria bellezza.

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Terremoto, ricostruire com’era dov’era a patto di non creare città senz’anima

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Com’era facilmente prevedibile, a parte le scontate e doverose visite natalizie delle istituzioni, l’interesse dei media sull’ultimo sisma è via via scemato, derubricato a sola perdita di “cose” e non persone. Agli annunci perentori, “Ricostruiremo dov’era com’era”, senza il dubbio della ragione, sarebbe stato auspicabile un più saggio “chi lo deve e come lo deve fare”.

Mentre lo sciame sismico era ancora in atto, proclamavano i loro editti, progettisti di grattacieli, urbanisti, geologi, archeologi, storici, sociologi e naturalmente politici. Poco importava che la parte più significativa e connotativa dell’Italia fosse in polvere, perché ormai di questo si tratta, e non già frantumi significativi, quindi ipoteticamente passibili di interventi di anastilosi (ricostruzione, ndr); poco importava se un minimo di cautela doveva portare ad analizzare scientificamente le cause dei crolli.

Riguardo poi il “chi lo deve fare” si è invocato, nei vari servizi giornalistici, l’esclusivo ricorso agli ingegneri, senza peraltro precisare quali, essendo la categoria molto vasta come tipologia, dai nucleari, ai gestionali, agli edili, mentre ovviamente gli unici che possono esercitare un ruolo significativo in questo frangente, sono gli strutturisti specializzati in edilizia sismica.

Viceversa pochi sanno invece dell’obbligatorietà della figura dell’architetto nei progetti di restauro di edifici storici vincolati e non, secondo il R.D. 2537/1925 confermato nella sentenza C.d.S. n.5239/2006, dove peraltro, in tutti i manufatti, è sancita l’inscindibilità tra componente strutturale ed architettonica, tant’è che le Soprintendenze esprimono il loro parere anche su questo aspetto.

Riguardo il “come” poi cosa fare per il dopo, con molta determinazione, da più parti si è invocata la ricostruzione del “dov’era com’era” mutuandolo dal proclama di Venezia (come spiegavo qui) ma sono passati anni perché questa tendenza riassumesse un significato che in ogni caso va meditato, studiato, approfondito.

Non dimentichiamoci due casi casi simbolo e due visioni contrapposte: il Belice ed il Friuli.

Nel primo neanche un immobile è stato recuperato, pur considerando che, ad esempio a Gibellina, Salaparuta, Partanna, Poggioreale, Montevago, porzioni significative di manufatti di pregio erano sopravvissute alla furia devastatrice. Unica eccezione la chiesa di Partanna salvata grazie all’intervento di Giuseppe Bellafiore, all’epoca presidente della sezione palermitana di Italia Nostra. Viceversa si preferì costruire ex novo a pochi km di distanza con risultati formalmente molto discutibili. Furono chiamati artisti ed architetti in voga  perseguendo l’idea della new town e di “museo a cielo aperto”. Eravamo in pieno Sessantotto ed ogni accenno alla ricostruzione sarebbe suonata come un’eresia. Il risultato furono opere assurde e mai finite che prosciugarono gli interi stanziamenti (ne sono un esempio la piscina e piazza post modern di Portoghesi a Poggioreale).

Emblematico il caso di Gibellina, dove fu operata una scelta forte, decidendo di coprire le macerie con cemento bianco e realizzare, per opera di Alberto Burri, una grande opera di arte contemporanea, definita il grande Cretto, ideato nel ’68, iniziato nell’85 e completato nel 2015, per un’estensione di circa 8.000 mq. In quel preciso momento storico, questa scelta, a cavallo tra il ’68 e primi anni 80 fu giudicata coraggiosa, pregna di altissimo valore culturale, anche se non condivisa dalla popolazione.

Di taglio completamente opposto la scelta del Friuli, che 10 anni dopo il Belice, optò per la ricostruzione minuziosa dei suoi monumenti, non solo con i frammenti minuziosamente catalogati, ma anche con la ricerca di pietre e materiali analoghi e coinvolgendo nel processo della memoria condivisa tutti gli abitanti e progettisti.

La stessa storia dei tanti terremoti devastanti ha documentato che interi paesi sono risorti secondo le caratteristiche stilistiche dell’epoca. Emblematici i casi di Reggio Calabria ed Avezzano, ricostruiti in stile umbertino. Lo stesso avvenne per i vari terremoti, eventi catastrofici vari e bellici, e in varie zone d’Italia, quasi sempre ricostruiti secondo lo spirito e l’architettura del tempo. Pertanto, in teoria, dovrebbe avvenire così anche ora, se non fosse che per gli esempi nefasti citati di aggregazioni senz’anima e prive di quella “qualità diffusa” che connotava i borghi scomparsi, giustamente gli abitanti delle zone colpite ora, sono allarmati.

Il dibattito su come recuperare il perduto ha pervaso non solo le coscienze italiane ma anche quelle europee, dalle teorie “ricostruttive” di Viollet Le Duc e D’Andrade a quelle romantiche e decadentistiche di Ruskin, sino ai saggi interventi didattici di Boito e Giovannoni, culminate poi con la Carta di Venezia di Brandi ed altri.

Il rischio potrebbe essere, trascurando la grande scuola di restauro che ci contraddistingue, di realizzare un mix tra Porto Rotondo, villaggi outlet, o Las Vegas, o tipo le finte Portofino che si stanno costruendo a Mosca. Anche se le intenzioni sono lodevoli e mirate alla ricucitura del tessuto, alla clonazione scientifica dei materiali delle tecniche tradizionali supportate dalla conoscenza di tecnologie per il consolidamento ed miglioramento sismico, il tutto va finalizzato alla dignità delle popolazioni, dei luoghi e alla restituzione della Bellezza.

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Leonardo Benevolo, l’anti archistar che ci ha insegnato la bellezza

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Probabilmente il grande Leonardo Benevolo, che ci ha lasciato lo scorso 5 gennaio, potrebbe essere definito dai più un architetto sconosciuto perché mediaticamente poco attivo – non andava a pontificare e urlare in tv – e la sua missione era salvaguardare il tessuto storico delle nostre città anziché aggiungere insensatamente opere per lo più brutte, costose ed inutili. In una delle sue ultime interviste disse: “Il poco che ho fatto sopravvive nella vita di qualcun altro, che pure non mi conosce”.

Leonardo Benevolo era viceversa conosciuto da tutti gli studenti, architetti e studiosi di tutto il mondo e dagli amanti della bellezza. Non ho mai avuto l’occasione di frequentarlo ma è come lo fosse stato, di lui mi parlavano sempre i suoi amici Giovanni Astengo, mio “collega” al Comitato urbanistico del Piemonte ed Antonio Cederna al Consiglio Nazionale di Italia Nostra.

Cresciuto in quel clima di grande fermento cultural-urbanistico tra gli anni 30 e 40, nel 1930 venne fondata l’Inu, il glorioso Istituto Nazionale di Urbanistica e nel 1942 nasceva la 1150: la legge quadro per il riordino del territorio, Benevolo, oltre che studioso, fu intellettuale a tutto tondo e sino all’ultimo un prolifico professionista. Fu estensore di innumerevoli piani regolatori, tra cui Venezia, Bologna, Alba, Crema, Monza e Tarquinia, ma soprattutto mi piace ricordare Urbino, salvaguardando, come auspicavano le due leggi del ‘39 la 1089 e 1497, gli squarci visivi. Si deve a lui se dal Belvedere Piero della Francesca si può godere ancora della bellezza del paesaggio fino ad arrivare con lo sguardo al Mausoleo di san Bernardino, sepolcro del Duca, unico artefice di quelle meraviglie.

Ha vissuto da studioso e professionista tutte le riforme, le competenze dell’Urbanistica, da quando i piani regolatori si trasmettevano a Roma al Ministero dei Lavori pubblici per l’approvazione, sino all’autonomia regionale degli anni 70 e al declino delle utopie come espresso nel libro scritto nel 2012 Il tracollo dell’Urbanistica italiana. Attivo sino negli ultimi anni, come mi hanno confermato oggi i figli, prodigo di consigli e di idee, amava professare, citando Le Corbusier, che “aveva lavorato per il fratello uomo” ed aggiungo io per la “Bellezza creata” e sicuramente i tanti uomini che vivono nei territori da lui salvaguardati, oggi ricordandolo, lo ringraziano.

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Sfilate nei palazzi storici, qual è il problema?

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Architettura e moda, esprimono idee di identità personale, sociale e culturale, riflettendo gli interessi degli utenti e l’ambizione dell’età. Inoltre la moda e l’architettura intercettano il cambiamento delle città e lo mostrano: l’una lo fa abitando corpi, l’altra vestendo i luoghi”. Un concetto espresso all’inizio del Novecento dal filosofo tedesco Walter Benjamin, quando scriveva che le due discipline “appartengono all’oscurità dell’attimo vissuto, alla coscienza onirica del collettivo”. Basterebbe questa enunciazione per legittimare, anzi incoraggiare, la scelta di abbinare o meglio proporre, negli spazi idonei e sottolineo idonei, eventi che non ledono certo la dignità del bene architettonico.

Si tratta di aggiungere bellezza nella Bellezza. Questa consuetudine non è nuova, è praticata largamente in Francia dove, per opera della nostra Caterina de Medici, i transalpini conobbero le delizie di quest’arte, minore forse, ma pur sempre tale, come conobbero altresì l’arte dei maestri profumieri (ancora oggi, infatti, viene conferito il premio Caterina). Basterebbe poi conoscere il Bronzino e la sua cura maniacale ai dettagli su abiti e gioielli, talmente verosimili che le splendide creature raffigurate nei suoi quadri sembrano pronte per uscirne ed esibirsi in una sfilata di moda nei corridoi degli Uffizi.

Come dimenticare poi le sfilate organizzate nel 1952 nella Sala Bianca di Palazzo Pitti da quell’imprenditore illuminato che fu Giovan Battista Giorgini, con stilisti del calibro di Emilio Pucci, le sorelle Fontana, Capucci, Simonetta Colonna, Giovanna Caracciolo (alias Carosa), Marucelli e molti altri, decretando la nascita della moda italiana conosciuta da lì in poi in tutto il m

ondo. Le foto in bianco e nero dello Studio Locchi di quegli anni sono tutelate e conservate nell’archivio storico del Ministero Beni Culturali e sono state anch’esse riproposte a Palazzo Pitti con il patrocinio della Galleria degli Uffizi.

Circa un mese fa, a 65 anni dalla prima sfiata nella Sala Bianca, si è ricelebrato il binomio arte e moda con l’evento anniversario dello stilista Stefano Ricci, mentre a Roma e Milano le settimane della moda, hanno avuto il loro epilogo in ambiti storici: mai danni sono stati constatati dopo questi eventi, né agli apparati decorativi, né alle strutture o ad altro. Eventi che oltretutto devono essere autorizzati preventivamente dalle Soprintendenze e dai vigili del fuoco.

Allora il problema dov’è? Di lesa maestà? Si comprenderebbe per una esposizione di trattori, di animali o di qualsiasi categoria merceologica problematica e foriera di effetti collaterali…
Ovviamente questo nolo di spazi, ribadisco idonei e non particolarmente sensibili cioè privi di quadri, sculture, pavimentazioni delicate e sofferenti al calpestio, deve portare un congruo e adeguato ristoro economico all’Ente che li concede come contributo a spese di manutenzione ordinaria di cui questi beni architettonici necessitano sempre.

Il recente diniego di Atene all’eventualità di una sfilata di Gucci “per motivi di opportunità” – ma probabilmente per mancanza di una tradizione forte nel mondo della moda – non solo è una inutile alterigia, cui dovrebbe però seguire il rifiuto di ogni altro contributo economico, ma è anche una mancanza di conoscenza del binomio sopra richiamato. L’unico appunto ironico che si può fare è che sarebbe stata più idonea la linea Versace con i suoi continui richiami alla cultura classica, piuttosto che il marchio, ormai ex, fiorentino.

Sarebbe auspicabile che stilisti italiani di fama mondiale si impegnassero costantemente nella salvaguardia dell’immenso patrimonio architettonico anche acquisendo dal demanio immobili destinati al declino anziché investire in nuove costruzioni. Viceversa insopportabile, e su questo punto nessun talebano della cultura ha mai protestato, l’adattamento al brand dei negozi storici quando, per creare l’immagine unica e standardizzata, vengono stravolte altezze, divelte cornici, uniformati volumi, come ad esempio a Torino in via Roma, dove in molti casi sono stati modificati elementi architettonici originali di Marcello Piacentini.

La tutela pertanto c’è solo con la conoscenza e la diffusione della bellezza con cautela quanto con generosa e lungimirante apertura.

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Ruderi e case rurali, perché è importante salvarle

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La recente e non ancora conclusa fuga di Igor/Norbert ha, tra gli altri aspetti, fatto conoscere e rilevare che uno dei tanti motivi della sua irreperibilità è facilitata anche dalla diffusione, su tutto il territorio della Bassa, di una quantità rilevante di ruderi di ex case rurali che potevano costituire un giaciglio temporaneo sicuro.

Chi percorre per la prima volta le zone del modenese, ferrarese e bolognese, non può che rimanere colpito dalla quantità di edifici rurali fatiscenti, il più delle volte semidistrutti e con tetti scoperchiati: sono le cosiddette “unità collabenti” catastalmente non soggette a obbligo di denuncia perché non reddituali.

Fenomeno sorto tra gli anni 50/60 quando, in pieno processo di industrializzazione, pur in zone agricole altamente produttive, si sono progressivamente abbandonate le case degli avi favorendo l’urbanizzazione, ma ancor peggio, l’edificazione del nuovo, purtroppo di qualità quasi sempre scadente.

Il tranquillo paesaggio rurale emiliano si è via via snaturato con agglomerati di capannoni, terrificanti centri commerciali e improbabili e pretenziose villette. Cosicché la variegata tipologia di edifici agricoli/residenziali, tra i più interessanti dell’Italia contadina, è andata sgretolandosi.

Le cosiddette case mezzadrili e bracciantili, gli edifici a elementi giustapposti, nonché le distaccate stalle/fienili con portici frontali ed alti pilastri o quelle con archi, le “caselle” sono impresse nella memoria collettiva in quanto tutt’uno con il paesaggio rurale emiliano. Pregevoli anche altre e più “alte” tipologie residenziali, con case con cappella annessa, case fortificate e i casini di caccia.

Dopo il rovinoso sisma, di cui tra poco ricorreranno i 5 anni, molti di questi edifici rurali, a principale scopo agricolo, dismessi da anni, sono stati ammessi a finanziamento e questo ha suscitato perplessità e addirittura nascita di comitati che denunciano presunte irregolarità nell’assegnazione di fondi pubblici. Quando viceversa edifici residenziali costruiti dopo gli anni 80 e sempre adibiti a questo scopo, erano stati non supportati finanziariamente dalla Regione Emilia Romagna.

Ora, non conoscendo i singoli casi e le singole pratiche, mi viene spontaneo affermare che, sul piano strettamente giuridico legale, forse è giusto l’appello dei vari Comitati di protesta e senz’altro bisogna effettuare controlli, ma sul piano estetico e di tutela del paesaggio agreste, purché siano stati rispettati criteri di intervento coerenti con i principi del restauro, con materiali e tecniche adeguati ed idonei, stilemi e sagoma ripresi rigorosamente, bene ha fatto la Regione, sufficientemente attenta alla tutela nella ricostruzione, ad appoggiare questi recuperi.

In sostanza meglio non finanziare la ristrutturazione di brutti edifici residenziali recenti ma recuperare il patrimonio edilizio rurale pregevole, parte integrante del paesaggio, anche se da anni dismesso, torno a sottolineare purché secondo i principi del rigoroso restauro filologico. Anche queste uniche irripetibili presenze di interesse testimoniale, storico ed architettonico poco conosciute di una parte d’Italia, sono pietre da preservare per la nostra memoria e il mantenimento della bellezza.

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Roma, a secco la città che inventò gli acquedotti

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Il paradosso – o nemesi – della carenza idrica a Roma è pari all’eventualità che nella Silicon Valley salti la connessione Internet: la città, che ha inventato gli acquedotti di moderna concezione e che aveva un sistema di approvvigionamento d’acqua senza pari dal 312 a.C., ora è a secco.

Il sistema di acquedotti aveva consentito di fornire a una città, che nell’epoca augustea raggiungeva già 1 milione di abitanti, acqua sufficiente a soddisfare il fabbisogno per usi personali e commerciali. Teniamo conto che, a quel tempo, l’acqua a Roma veniva “sprecata” sia dal largo uso nelle terme, sia nel dispendioso utilizzo di fontane pubbliche e monumentali, e perfino nelle naumachie (battaglie navali organizzate dentro al Colosseo, che per l’occasione veniva allagato).

All’inizio del III° secolo d.C., la città di Roma era già servita da undici acquedotti principali. Il primo, costruito nel 312 a.C. e lungo poco più di 16 chilometri, fu quello dell’Acqua Appia, quasi completamente sotterraneo. Ancora in parte conservato è l’Acquedotto Claudio, lo stesso ripreso nel film di Paolo Sorrentino, lungo circa 69 chilometri (di cui 10 costituiti da arcate, alcune alte anche 27 metri), oltre a un condotto dell’Acqua Marcia che trasportava ogni giorno a Roma 190.000 metri cubi d’acqua. Nell’approssimarsi dell’area urbana, sospinta dalla forza di gravità, l’acqua raggiungeva vasche di distribuzione, poi, attraverso diramazioni, defluiva verso altri bacini.

Si calcola che la rete idrica di Roma crebbe al punto che ogni singolo abitante avrebbe potuto usufruire di oltre 1.000 litri d’acqua al giorno. Il condotto detto specus veniva rivestito dal cocciopesto, un’amalgama impermeabile che viene ancor oggi usata in architettura con ottimi risultati sia funzionali che estetici.

La necessità poi di dotare la città di un sistema efficiente di approvvigionamento idrico e di altrettanto efficienti sistemi fognari, tali da conferire benessere ai suoi abitanti, era così sentito, diffuso e condiviso, che lo storico degli acquedotti romani, nonché “curator aquarum”, Sesto Giulio Frontino si spingeva a definire inutili ed oziose le piramidi e i, pur celebrati, templi greci in confronto alle opere idrauliche romane, lo stesso che dopo raccomandò di non sprecare denaro per erigere monumenti celebrativi della sua morte.

Non solo ardita costruzione ma manutenzione attenta e continua, pratica che all’epoca di Augusto contava più di 700 addetti; già perché le opere infrastrutturali richiedono manutenzione continua, anche se poco o nulla risultano suggestive per la fama (e fame) dei nostri amministratori, attratti dai vantaggi economici e intenti a lasciare un segno tangibile con mega palacongressi, mega auditorium, centri fieristici permanenti o temporanei che non finiscono mai (forse per prolungare la fama di chi li ha voluti?) e che si quintuplicano nei costi, quando va bene.

Invertendo questa tendenza e privilegiando il recupero, sia dell’edilizia storica, sia delle infrastrutture, acquedotti, fognature, strade, si potrebbero raggiungere diversi risultati e per la qualità dei servizi e per la bellezza.

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