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Channel: Donatella D’Angelo – Il Fatto Quotidiano
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Roma, Piazza di Spagna pedonale è solo un palliativo al degrado?

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Per carità noi cultori della “Bellezza”, siamo felicissimi della pedonalizzazione totale di piazza di Spagna. Un provvedimento del genere ‘fa fino e non impegna’ si diceva una volta dalle mie parti, nel senso che non può trovare acerrimi oppositori (se non rischiando di passare come trogloditi) e non costa niente tranne che per le brutte, ma regolamentari, paline.

Il rispetto dei valori architettonici e paesistici dev’essere però totale per non risultare un palliativo ed effimero rimedio al degrado, quindi va completato con la cura e vigilanza dell’arredo urbano – vedi rimozione di inidonee insegne, fioriere di cemento, antenne selvagge, recinzioni di plastica arancione del cantiere a lato piazza, selciato sconnesso. Soprattutto con la possibilità di godere a 360° della splendida Piazza senza intoppi visuali di ogni genere costituti da bivacchi umani ad uso turistico e commerciale, come del resto prevedeva la Legge 1497/39 sulla protezione delle Bellezze naturali ancora oggi citata in sentenze, che proteggeva e vincolava tra l’altro: i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale e le bellezze panoramiche considerate come quadri naturali e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze.

Questo vale non solo per il “Tridente” ma anche per le vie che portano a piazza Farnese, diventate nel tempo un emporio del “tarocco” (altro che made in Italy) con negozi sempre più invadenti sulla strada e maglie calcistiche appese a mò di bandiere, tali da impedire il fondale dell’altra fantastica piazza.

Si dovrebbe insomma creare un “sistema” delle piazze simbolo di Roma (e non solo) da godere integralmente cielo-terra prima che l’Unesco non ci declassi le nostre “uniche” città.


Venezia, le grandi navi e la non soluzione

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Venezia mi fa tornare ragazza,quando 30 anni fa, giovanissima consigliere di Italia Nostra, insieme a Bagatti Valsecchi, Fabrizio Giovenale e Antonio Jannello, ci occupammo dei pericoli che la Laguna stava correndo per via di Piani urbanistici scellerati e del problema della profondità delle Bocche di Porto al Malamocco, ma adesso tiriamo un sospiro di sollievo: tante battaglie, comprese quelle dell’infaticabile Lidia Fersuoch (Pres. Italia Nostra Venezia), sono da ieri state vinte…o no? Finalmente i mostri marini moderni non s’inchineranno più a San Marco?

Mah, forse è un altro provvedimento che fa fino e non impegna…eh no questa volta non fa neanche fino, perché il problema è solo spostato più in là. Ed impegna, perché ci costa più di 115 milioni che potrebbero essere impegnati per il recupero architettonico della città, non solo della parte aulica, ma anche di quella cosiddetta Venezia minore così bella, così struggente, così degradata…e comporta anche la perdita del paesaggio, del quadro… (sempre per citare la L. 1497/39) che imponeva di tutelare ”le bellezze panoramiche come quadri naturali e così pure i punti di vista accessibili dai quali si goda lo spettacolo di queste bellezze”. Legge che ha consentito di conservare ancora quel poco che resta di integralmente fruibile dei Beni Culturali senza compromessi.

E’ veramente da film horror osservare questi mostri marini a ridosso della ex Repubblica (Stai) Serenissima, tronfii e rigurgitanti di ansiosi amanti della città lagunare, pronti a vedere la città dalle sdraio, oppure a scendere pochi minuti a consumare un gelato, per ritornare appagati sulla nave-città. Se i crocieristi amassero davvero Venezia, come sostengono gli armatori, dovrebbero essere i primi a porsi il problema di tutelarla e quindi compiere un viaggetto in treno, scendere a S. Lucia e godersela a piedi, magari soggiornando più giorni (per coloro che non si possono permettere un hotel in città, ci sono quelli poco costosi nelle vicinanze). Invece il turismo becero, che in Italia non porta niente al nostro Pil, viene incoraggiato anche nella splendida ed “unica” Venezia. Ennesimo patrimonio che rischia il declassamento o l’esclusione dai siti Unesco, così come Caserta, Pompei ed altre unicità italiane.

Dopo anni di studi, perizie, consulenze e comitati, costati alla collettività fior di quattrini su come salvaguardare la Laguna, si è arrivati ancora una volta ad una non soluzione. E così come scrive e ricorda la già citata Lidia Fersuoch, il Via (Valutazione Impatto Ambientale) del 1998 diede esito negativo anche al Progetto Mose, provvedimento purtroppo mai reso attuativo per via del non esecutività del successivo decreto, per vizi formali. La sostanza però resta ed i vari studi di società d’ingegneria indipendenti, come la francese Principia, hanno dimostrato la non esaustività del decantato progetto Mose. In più il Canale della Contorta, alternativa ieri proposta per il passaggio delle grandi navi,sarebbe un Canale dei Petroli bis pronto a distruggere i caratteri morfologici della Laguna Centrale per sempre.

Turismo: serve una politica di informazione e programmazione

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Nella più classica tradizione del tormentone estivo, al pari del motivetto orecchiabile, dell’accessorio trendy o del gergo urbano (che qualificano subito chi ne è costantemente seguace), anche quest’anno è stato riproposto da più parti, da amministratori, politici e intellettuali, il tema del numero chiuso nelle località turistiche di grande valenza ambientale e nelle città d’arte. Ma perché principalmente d’estate e non durante i mesi invernali?

Perché in estate, per ovvi motivi, oltre che il numero esorbitante, impressiona lo “sbracamento” di questi novelli barbari anelanti di poggiare per pochi istanti le loro sudate estremità sui selciati o pavimenti storici. Solo che, come ricordava Giorgio Bocca in un memorabile articolo su Repubblica del luglio 1987 su Firenze, ove migliaia di turisti mordi e fuggi fossero la causa principale del degrado, del decadimento e della poca attrattività per un altro turismo: più consapevole e a ritmi più lenti ed alla fine più redditizio.

Da allora nulla è cambiato, anzi si sono susseguiti ogni estate appelli da parte di sindaci e maestri del pensiero, sempre poi a fine settembre caduti nell’oblio.

I fanatici del politically correct a fronte del paventarsi di limitazioni d’accesso, oppongono i motivi dell’accessibilità a tutti senza limiti sia per quanto riguarda eventuali ticket d’ingresso, sia per l’eventuale numero programmato. A costoro occorrerebbe ricordare che le nostre città d’arte e le località amene devono essere vive, vissute costantemente e non assediate e violentate. Citando l’ex sindaco di Capri Ciro Lembo, che nel 2009 commissionò al Censis un’indagine sulla sostenibilità dei flussi turistici, “la pressione è troppa, è come far entrare dieci litri d’acqua in una bottiglia di un litro, siamo costretti a regolare anche il traffico pedonale”.

Giustissimo, tenuto conto che questo tipo di turismo, a chi è come me testimone oculare frequentando costantemente l’isola per motivi professionali, non vi arriva né per vedere il mare da via Krupp, la Certosa di S.Giacomo o Villa S.Michele, ma per osservare chi c’è dei personaggi da gossip seduto ai tavolini dei bar della Piazzetta. Lo stesso vale per Firenze, dove in oltre 10 anni di frequentazione agli Uffizi, mi sono spesso imbattuta in presunti fugaci estimatori delle opere d’arte che una volta usciti si sdraiavano sulle panche di pietra sbocconcellando pizzette e consumando lattine (quest’ultime poi regolarmente abbandonate sul piazzale). I miei richiami, diretti ed indiretti, coinvolgendo vigili ed autorità varie, sono sempre andati vani.

Gli oppositori alle varie misure per contenere il diffondersi di questo turismo che assume proporzioni catastrofiche e dannose per il nostro territorio, sia storico che ambientale (i danni non solo sono materiali ma anche d’immagine, tenuto conto che le foto del degrado hanno fatto il giro del mondo), dovrebbero capire che la concentrazione in pochi mesi di un turismo che non è povero di risorse, ma di cultura, è lo stesso che spende come minimo 1000/2000 euro su una Grande Nave o che non disdegna pagare 80€ per un concerto di una pop star.

Un euro in più per entrare in un museo e starci magari una mezza giornata anziché 1 oretta, ma in contemplazione serena ed appagante, così come un breve soggiorno sulle nostre coste anziché una fugace e stressante toccata e fuga nelle località modaiole, dovrebbero essere l’indicazione che Regioni ma soprattutto Enti come Enit dovrebbero diffondere ai vari turisti durante tutto l’anno. D’altra parte la calca e l’assieparsi possono anche essere potenziali fonte di pericolo e così come nelle sale dei teatri, concerti e per convegni pubblici viene disposto, su indicazioni del ministero dell’Interno (dal D.m. del 30/11/83 al D.m.19/8/96) e con tanto di controllo dei Vigili del fuoco, un numero massimo di persone consentito per la capienza dei locali, non si vede come non si possa, per analogia, applicare lo stesso principio. Nessuno mi risulta si sia mai risentito per essere stato allontanato anche da eventi gratuiti, tant’è che ormai vige il principio della prenotazione, come ad esempio a Torino al frequentatissimo Circolo dei Lettori. Ben lieta fui, e lo dissi pubblicamente, dell’accorpamento tra Ministero dei Beni Culturali e Turismo, tenuto conto del legame imprescindibile anche dal punto di vista economico che ci dovrebbe essere tra queste due realtà, ma dalle parole occorre passare ai fatti con una politica di informazione e di programmazione.

Una specie di “Viaggiare informati e a codici”, insieme ad una programmazione concertata con i vari Tour Operator, italiani ed esteri: una sorta di turismo a tema, suggerendo itinerari e mete per le varie borse, le varie aspirazioni e consigliando i periodi a seconda delle località indicate. L’Italia è ricchissima di borghi, centri antichi, castelli, rocche che uniscono tra l’altro cultura ed enogastronomia di qualità a prezzo contenuto, ma ahimè sconosciuti da italiani e stranieri, forse perché non frequentati da personaggi di moda. Ma se questo è il problema chiediamo al limite a uno di questi novelli condottieri, di posare (gratuitamente) per una foto ricordo nel bar del paese. In questo modo forse il nostro Rac (ritorno economico sugli asset culturali) potrebbe portare a risultati soddisfacenti non solo in termini relativi ed assoluti, ma anche con tutti i benefici diretti ed indotti di un comparto fondamentale per il nostro Paese.

Bronzi di Riace, lasciamoli a Reggio anche per favorire il turismo

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Mi sono sempre stupita nell’apprendere di nuove esposizioni universali, come erano chiamate nell’800 o Expo come vengono chiamate adesso, perché la sostanza non cambia: che vengano organizzate in piccoli centri (e in questi casi sono definite Fiere) o in moderne metropoli, sempre Mostre Mercato sono.

Per dirla alla Walter Benjamin: “Le esposizioni universali sono luoghi di pellegrinaggio al feticcio merce”. Da sempre si è cercato di darle un involucro attrattivo e un risvolto culturale (l’ho fatto anch’io negli anni ’80), chiedendo ad architetti, scultori, designer di progettare padiglioni che, nati come provvisionali e quindi effimeri, dovevano essere originali e dirompenti per poi essere smantellati oppure no. Non fu così ad esempio a Parigi con la Tour Eiffel o a Torino con il Borgo Medievale, dove ben metabolizzate, soprattutto dai residenti, ne sono diventati luoghi simbolo.

Ma si era in epoche in cui le comunicazioni e le informazioni commerciali non viaggiavano alla velocità di Internet. Adesso persino i poveri agenti di commercio rappresentano una categoria professionale in via d’estinzione superata da cataloghi on-line interattivi e da vendite sempre più consistenti su Ebay, Amazon e AliBaba (solo per citare i più conosciuti).

A cosa servono effettivamente le Esposizioni al giorno d’oggi a parte dei nobili, sociali intenti Universali che i media ci propugnano ogni giorno? Non si sa… E a parte del business delle costruzioni e di tutto l’indotto lecito ed illecito al netto dei patologici risvolti di malaffare?

Dovrebbero favorire il turismo commerciale e il turismo culturale in maniera tale da attrarre il visitatore, che si presume abbastanza prestante e abbiente da sopportare magari un viaggio intercontinentale per visitare non solo Milano ma l’Italia, indotto da pacchetti predisposti con largo anticipo da Enti privati ed istituzioni pubbliche e rivolte all’estero

E qui vengo alla questione dei Bronzi di Riace sollevata in questi giorni e al centro di aspre contese. Premesso che mi trovo quasi sempre d’accordo con l’amico Sgarbi, questa volta francamente non capisco la pervicace ostinazione a fare assurgere questi due guerrieri di manifattura ellenica e pescati in piena Magna Grecia a simbolo dell’Italia come se non avessimo esempi altri da mostrare al mondo intero. A meno che proprio nello spirito mediatico/commerciale delle Esposizioni Universali, questa coppia non sia mediaticamente più interessante di altre opere d’arte (ad esempio rinascimentali) e questa polemica non faccia che aumentare l’interesse per loro.

Ma allora lasciamoli a Reggio dove possono essere il pretesto per una vacanza e per godere del mar Jonio, del più esteso lungomare d’Italia, per visitare Crotone e Isola di Capo Rizzuto. Mi si opporrà che, dato l’altissimo numero di visitatori previsti, le strutture alberghiere reggine non sono sufficienti, ma qui si ritorna alla programmazione mirata non solo per periodo ma per costi e aspettative.

Il vero problema viceversa sono le infrastrutture: autostrade, ferrovie e aeroporti, ma una volta tanto si potrebbe accelerare per completare da adesso sino al maggio 2015 la Salerno-Reggio, visto che mancano meno di 40 km, (senza per forza dover derogare dalle procedure degli appalti normali). Cosa fattibilissima in un paese normale, se si pensa che la più lunga Autostrada d’Italia la A1 (oltre 761 km) con altri mezzi tecnologici fu realizzata alla fine degli anni ’50 in 7 anni. Visto il fiume di denaro che viene speso per l’Expo, i fondi (se eventualmente mancassero e previo Supercontrolli) per completare questa opera, utile e non provvisionale, potrebbero essere utilizzati a tal fine.

Vedere e godere delle opere nel loro contesto, queste in primis, con ancora quell’alone di mistero e di salsedine jonica che ancora emanano, penso sia il più appagante e affascinante dei viaggi culturali “a seguito del pellegrinaggio al feticcio merce” che gli Expo ancor oggi significano.

Cavallerizza di Torino: dopo l’incendio una proposta per salvarla

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C’e un Borgo in pieno centro a Torino a due passi dalla Prefettura e dal Comune, attiguo al Teatro Regio ed Auditorium della Rai, di rara bellezza ma inarrestabile degrado, anzi in lenta e dolorosa consunzione. Dopo anni di abbandono di latitanza delle Istituzioni di ambigue dismissioni, permute cartolarizzazioni, due notti fa si è consumato l’ultimo oltraggio: un incendio quasi certamente doloso ne ha parzialmente distrutto il fronte ovest su via Rossini. Questo Borgo è conosciuto come la Cavallerizza Reale, complesso di servizi e di varie destinazioni d’uso (uffici di governo, zecca di Stato, scuola militare e maneggio e scuderie) evocativo dei fasti e delle ambizioni della Corte Sabauda che attraverso percorsi coperti poteva raggiungere il vicino Palazzo Reale.

Costruito tra il 1670 ed il 1830 per opera degli architetti reali Amedeo di Castellamonte, Juvarra, Alfieri e Mosca, rappresenta un organismo unico nella schematica urbanistica sabauda ,quasi stravagante ed a tratti intrigante nella sua configurazione articolata di edifici obliqui a ferro di cavallo, cortiletti nascosti, edifici ottagonali, finestre curvilinee pregevoli e curiose opere da fabbro e falegname. Ai primi del 900 si insediarono tribunale militare, uffici statali, Polizia di Stato e molte residenze, mentre alla fine del 2007 dopo il trasferimento di alcune di queste funzioni il Comune di Torino iniziò gradualmente l’acquisizione dal Demanio militare e civile per poi tentare la cartolarizzazione, ma come sovente succede il progressivo abbandono di alcune funzioni anche se non prettamente idonee e compatibili ne decretò il lento declino. Soprattutto perché in mancanza di un disegno organico ed una visione complessiva sulla destinazione d’uso al fine della salvaguardia e valorizzazione totale dell’intero borgo, si è optato per interventi auto promossi da vari Enti.

La singolarità di questo Borgo, oltre alla già citata estrosa bellezza, è determinata dalla sua posizione: si trova al centro del Polo della Cultura torinese essendo confinante con il Teatro Regio e l’Auditorum Rai, prospiciente poi il Teatro Gobetti a pochi passi dal Teatro Carignano e dal Museo del Cinema. Proposi pertanto al Comune di farlo assurgerle a Polo Musicale, tenuto conto che l’attiguità con i due Templi della Musica (3100 posti) non dotati però di quell’insieme di servizi tali da rendere questi Teatri attrattivi per il sempre crescente numero di fruitori del turismo musicale poco conosciuto e coltivato da noi pur essendo la Patria del Melodramma. Un altro fattore non trascurabile è la vicinanza con l’imbocco delle Autostrade ToMi e ToPc e To Frejus (a 5/6 km)la Stazione di P.Nuova a 800 mt e l’Aeroporto di Caselle a meno di 15 km. Cito sempre come casi di successo Pesaro con il Rossini Opera Festival o ancor meglio Salzburg dove per tutto l’arco dell’anno il Turismo Musicale inteso nel suo insieme di Eventi ed opportunità determina dei benefici diretti e indotti per il commercio di ogni settore.

A questo punto occorre però fare una seria considerazione su quanto gli opposti estremismi in tema di tutela e valorizzazione giochino un ruolo deterrente ad ogni Progetto innovativo e scevro padrinati politico/lobbisti. Da una parte Enti ed istituzioni che frettolosamente si liberano di edifici problematici (secondo loro) per assegnarli ai professionisti delle palazzine, dall’altra parte mistici perseguitori del solo intervento pubblico come risolutore della Cultura demonizzando a priori senza se e senza ma il privato. Ci può invece, anzi ci deve essere il privato nella Cultura che investe in modo consapevole e guidato dal pubblico e questo potrebbe essere un caso vincente se consideriamo che due alti elementi attrattivi e di riconoscibilità del nostro Paese sono il Borgo e la Musica, oltre tutto ciò che ruota intorno a questi: moda, cibo, sponsor ed investitori in questi settori.

Un segmento non ancora coltivato e conosciuto da noi, che secondo i dati Unioncamere 2011, evidenziava quale l’unico in progressiva crescita e tale anche da far affermare ad un operatore specializzato in viaggi per Melomani, Andrea Cortellazzi, “che il cliente medio di ottimo profilo culturale è un big spender, fascia media/altissima destagionalizzato amante della discussione e convivialità legati all’esperienza musicale, oltre che portato ad essere fidelizzato e trovarsi appagato in una community”. Non trascurabile infine per la tutela è che il profilo di questo fruitore di Turismo chiamati da un altro operatore del settore i “globetrotter con lo smoking” sono appassionati anche di architettura e tutto ciò che è legato alla bellezza ed alla cultura del territorio disposti non solo a goderne in modo attivo e partecipativo ma di offrire un contributo per la valorizzazione a beneficio di tutti.

Strade dissestate: le nostre città, le buche e la manutenzione che non c’è

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C’è un elemento che contribuisce ad enfatizzare o a mortificare la bellezza dei nostri centri storici; questo elemento è costituito dalle nostre strade. Poiché se paragoniamo la città ad una abitazione, esse ne sono il pavimento come i prospetti dei palazzi ne sono le pareti. La cura con la quale manuteniamo i nostri parquet, le nostre veneziane, i nostri cotti non è la stessa però degli amministratori pubblici nei riguardi delle vie cittadine, e questo non produce solo guasti alla bellezza ma anche alla salute. Un disegno armonico, mirato alla cura delle nostre antiche pietre, eliminerebbe quelle falle che impediscono una serena e piacevole fruizione delle nostre strade e gradevole la passeggiata. Recentemente dopo “cadute eccellenti”e segnalazioni quotidiane di cittadini infortunati ed esasperati, il Comune di Torino ha acceso un ulteriore mutuo, per cercare di riparare (si spera a regola d’arte) le proprie strade dissestate.

L’assurdità poi è che una delle nostre tradizioni culturali deriva dal sistema viario romano, inteso non solo come assi di collegamento tra le province dell’Impero, ma soprattutto come composizione del fondo diversificato a seconda delle funzioni: pedonale, veicolare leggero, veicolare pesante. In sezione si contavano almeno cinque strati che culminavano con il summum dorsum o pavimentum, quasi sempre a schiena d’asino, da cui il termine dorsum, per evitare la stagnazione di pericolose e scivolose pozze d’acqua. Imperatori come Nerva e Domiziano ne fecero il loro programma elettorale e la loro fortuna politica: una singolare e splendida mostra a Castel Sant’Angelo nel 1995 ne celebrava la tecnica. Pare però che questa scienza del costruire sia andata perduta tant’è che buche, dissesti, lacerazioni del manto nelle nostre vie cittadine, oltre che creare un senso di degrado e sciatteria, siano diventate un serio pericolo.

Secondo i dati Aci/Istat, rielaborati dall’Ania nel 2012 relativi agli incidenti stradali, nella sola Roma oltre 24mila feriti gravi, oltre 15mila a Milano, oltre 5mila a Torino per non parlare dei decessi. E di questa strage il 20% è dovuto al dissesto del manto stradale.

Come dicevo all’inizio la non cura di questa componente della città, ha ripercussioni estetiche funzionali e, senza voler ricordare il sempre citatissimo Hausmann, si potrebbe ridare impulso alla progettazione ed edilizia di qualità, attraverso un’attenta opera di manutenzione che recuperi, previo uno studio attento delle pavimentazioni originali, una scelta dei materiali idonei per il tipo di traffico della via o piazza, in modo tale da risultare coevo all’intorno; viceversa gli appalti al massimo ribasso vengono assegnati senza un vero progetto e solo con un computo, a ditte, iscritte alla categoria normativamente corretta, ma che non hanno nel loro bagaglio esperienza, cultura sulla storia e le modalità di posa (ad esempio di selciati) e che a loro volta, per risparmiare, utilizzano manovalanza raccogliticcia e incompetente.

Sarebbe tra l’altro un incentivo per l’economia, specie in un settore da molti anni in cronica sofferenza. Taluni potrebbero asserire che gli interventi di manutenzione usa e getta per chiudere buche e falle sono urgenti e si deve badare a ridurre la spesa, ma come in qualsiasi settore, l’emergenza deve essere prevenuta con un piano che la preveda e un albo precostituito di ditte specializzate. In più, solo a scopo esemplificativo e non certamente risolutivo,  si potrebbe prendere in prestito l’idea di un comune della Turingia che, al pari della strada delle stelle di Hollywood, ha apposto il nome del cittadino sponsor sulla porzione di pavimentazione restaurata.

Le vie storiche poi potrebbero anch’esse essere oggetto, da parte di mecenati, di interventi manutentivi accurati, sempre nel segno della filologicità e della durevolezza dell’intervento, perché esse sono il primo passaggio verso la conoscenza del territorio; senza percorrere ciottoli storici non si percepirebbero pregevoli ambiti architettonici e paesaggi suggestivi.

‘Venere’ di Botticelli a Torino: la frenesia di avere a tutti i costi un feticcio da esporre

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Un pericoloso e letale virus sta colpendo il Bel Paese: si chiama horror vacui e chi ne è contagiato diventa preda di una parossistica frenesia ad inseguire ogni manufatto artistico, possibilmente molto noto, allo scopo di riempire i vuoti o perlomeno quelli che il contaminato ritiene tali.

La frenesia lo porta ad agitarsi pur di raggiungere il suo scopo; di solito il virus prende persone molto esposte, ma si diffonde rapidamente tra amministratori locali, politici, responsabili di enti culturali agognanti di possedere il feticcio (da adorare e venerare con proprietà taumaturgiche) per riempire lo spazio che potrebbe ahimè essere dimenticato e non evocato.

Perché poco importa se lo spazio è già di per sé bello e colmato da altri oggetti o usato per altre funzioni, occorre avere il testimonial, come il personaggio tv da ospitare per l’audience.

Passate le epidemie agostane, quando sembrava ormai scemato, verso la fine di settembre, in concomitanza con la riunione dei ministri europei della Cultura, si è riproposto, con l’idea di traslare a Venaria Reale nel periodo dell’Expo la testimonial per eccellenza: la Simonetta Vespucci, alias Venere del Botticelli, che è propriamente connotativa degli Uffizi (come la definisce l’ottimo direttore Antonio Natali), al pari delle meno note Eleonora de Toledo, Maria Salviati, Lucrezia Panciatichi e altre dame fiorentine.

Si badi bene che il termine feticcio non vuole avere connotazioni negative, ma è la forzatura che si vuole dare ad una opera d’arte ritenuta capace di riempire spazi ed attrarre adoratori.

Se fosse così le origini liguri di Simonetta potrebbero essere di conforto alla martoriata, non dalla natura ma dagli uomini, terra di Genova, come salvatrice dai malvagi che, anziché valorizzare ciò che è identificativo della nostra civiltà e non riproducibile, in un ansia che invade progettisti, specie se archistar, cercano di eguagliare Manhattan o Dubai.

Genova, che è dotata di uno dei più antichi e interessanti centri storici italiani (il 4° per estensione), ha interi isolati fatiscenti che potevano essere recuperati, sia per la destinazione residenziale che commerciale, evitando costruzioni a rischio, e destinando risorse al riassetto idrogeologicoMi si obietterà: ma cosa c’entra il discorso dei prestiti dei feticci con le alluvioni, determinate – si badi bene – non dalla natura, ma dallo spreco del territorio?

C’entra eccome, perché l’ansia di riconvertire grandiosi contenitori per il solo scopo museale e quindi di farli rendere (com’è giusto che sia) economicamente, porta i responsabili all’affanno continuo dello sbigliettamento di risorse, tenuto conto della quantità e concorrenza di Musei (troppi) presenti nel nostro Paese.

Molte volte si dimentica che palazzi storici, complessi monumentali, rocche, castelli, fungevano a scopi funzionali (residenziale, terziario, commerciale), che venivano usati da una molteplicità di addetti a tutti i livelli, frequentati sino al primo piano persino da cavalli e cionondimeno arrivati a noi indenni.

Sostengo da anni che i beni culturali si depauperano non solo per il cattivo utilizzo e le manomissioni, ma ancor più per l’abbandono: i monumenti, come le case, vanno vissuti, il loro lento e a volte impercettibile degrado inizia da una piccola mancata manutenzione dovuta al non uso.

Quando proposi di destinare il complesso della Reggia di Venaria, oltre agli edifici limitrofi, a sede della Regione Piemonte, qualcuno obiettò che doveva viceversa diventare un altro (ennesimo) museo, dimenticando che ogni complesso monumentale ha parti auliche e grandi superfici, già all’epoca concepite per servizi. Senza contare che la Reggia era completamente privata di suppellettili ed elementi decorativi di pregio.

In questo modo si sarebbe evitato a Torino il costoso ed impattante grattacielo e la giusta preoccupazione di attirare sempre più visitatori (anche con la Venere) per mantenere la Dimora.

Sta agli architetti redigere un buon progetto di restauro che coniughi rispetto totale per la storia e destinazione d’uso, quindi filologicità e fruizione, basandosi sul concetto fondamentale della Carta italiana del Restauro che imponeva di mantenere in efficienza il complesso monumentale. Stessa Carta che dettava di evitare il ricollocamento delle opere d’arte in luoghi diversi dagli originali, concetti ripresi dalla L. 1089/39 e dal Codice dei Beni Culturali.

Matera Capitale europea della Cultura: la città potrebbe traformarsi in opportunità

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Al di là della scontata e, spero generale, soddisfazione dell’Italia intera e della Basilicata in particolare, per il fausto verdetto su Matera Capitale europea della Cultura 2019, e al di là della comprensibile delusione delle città concorrenti, resta sorprendente la scelta non usuale e coraggiosa della Commissione. Quello che colpisce è l’aver identificato Matera tutta e non solo i Sassi (dichiarati Patrimonio dell’Umanità dal 1993), come organismo edilizio pregevole e luogo evocativo di un sistema di vita che oggi definiremmo ecosostenibile.

Già sorpresi perché l’Unesco, invertendo una tendenza, scelse questo straordinario agglomerato, come primo sito del Sud patrimonio dell’Umanità. Non era facile, anzi non lo è tuttora, definire ed accettare nella realtà italiana di centri storici magniloquenti medievali, rinascimentali o barocchi, specie dopo le altre due città che nel passato ricevettero l’ambito attestato, ossia Firenze e Genova, un contesto in cui l’elemento predominante è la stratificazione di epoche e di connotazioni, dai pregevoli ma sobri palazzi nobiliari all’architettura rupestre con l’unicità del suo tessuto abitativo e della sua morfologia urbana. Quello che colpisce, in attesa di conoscere le motivazioni della scelta, peraltro non unanime, è quindi l’originalità ed il coraggio di privilegiare una realtà architettonica non scontata, non patinata, ma unica, raffinata e nel contempo rude, monolitica e monocromatica, non dotata di eccezionali e conosciutissimi monumenti ma essa stessa un monumento eccezionale.

Perché Matera, ovvero la Città di pietra, e più in particolare i rioni dei Sassi, costituiscono e rappresentano la simbiosi perfetta tra architettura e natura, tutt’uno forma e materia; è anzi architettura che diventa scultura, al pari delle “meteore” greche, come motivò l’Unesco: “L’equilibrio tra intervento umano e l’ecosistema mostra una continuità per oltre nove millenni, durante i quali parti dell’insediamento tagliato nella roccia furono gradualmente adattate in rapporto ai bisogni crescenti degli abitanti”. L’origine antichissima di questa città, prima greca poi romana con il nome Civita, sul cui perimetro si sviluppò la città medievale e che mantiene pressoché intatto il suo fascino discreto, ha subito per fortuna poche manomissioni; anzi proprio nella zona dei Sassi, a seguito del loro rilancio, dove sussisteva il pericolo del ricorso al caratteristico, al pittoresco all’ostentato povero, ci sono state alcune prove di giusto equilibrio tra conservazione ed innovazione e si auspica che questa tendenza continui.

D’altra parte ha significato qualcosa la presenza o passaggio di raffinati intellettuali quali Manlio Rossi Doria, Umberto Zanotti Bianco, Giustino Fortunato, Zanardelli e poi di uno dei padri dell’urbanistica moderna Luigi Piccinato che firmò il Piano Regolatore, senza dimenticare anche di Carlo Levi che, con il suo drammatico ed apparentemente offensivo epiteto di vergogna nazionale attirò per primo l’attenzione sulle condizioni di degrado in cui versava la parte più povera della città. Il primo risanamento igienico, dopo la denuncia di Levi, fu avviato negli anni ’30 con un ambizioso piano denominato Per la più grande Matera con l’avvio di opere pubbliche ed assetto idro-geologico secondo la prassi dell’epoca, anche a Genova adottata, cioè l’incanalamento dei torrenti (chiamati grabiglioni) che da sempre avevano caratterizzato lo sviluppo dei Sassi.

Un dibattito sempre acceso e propositivo, ha sempre animato questa città sospesa tra il marchio di vergogna nazionale e quello di patrimonio dell’Unesco nella sua componente più povera, sino a Città Europea della Cultura: sarà stata anche questa determinazione a non cancellare nella memoria collettiva un passato che per alcuni sarebbe stato un imbarazzo per elevarlo a simbolo del connubio inscindibile tra architettura e natura. Matera tutta, (non solo i Sassi), la città di pietra, è Materia che si fa arte, povertà che diventa ricchezza e bellezza, disagio che si trasforma in opportunità. Questo è il messaggio che, se saprà ben valorizzare il suo patrimonio edilizio, potrà diffondere a tutta l’Europa.


Colosseo e il progetto di ricostruire l’arena: non trinceriamoci dietro la logica del non fare

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L’altra sera ad una cena ho constatato che non si è ancora spenta l’eco della proposta/provocazione del ministro Franceschini sulla ricostruzione dell’arena del Colosseo dal momento che alcuni amici mi hanno chiesto cosa ne pensassi. Premettendo che nessuno di noi, anche con l’orgoglio e la presunzione di avere contribuito anche se minimamente, con i fatti e non con le parole, alla salvaguardia e tutela del nostro patrimonio storico, ha la verità in tasca, ho interloquito con i miei gentili commensali facendo a braccio le seguenti considerazioni che ripeto da oltre 25 anni.

Colosseo

I beni culturali vanno in ogni caso sempre e dovunque salvati valorizzati e tutelati, dovunque vengano attinte le risorse (altro argomento di discussione) e una volta effettuato il loro recupero vanno vissuti.

Paragone che non mi stanco mai di ripetere: l’organismo edilizio è come l’organismo umano, lo si cura per farlo vivere non per chiuderlo in cassaforte, in più l’uso consapevole aiuta la manutenzione ordinaria, che è da sempre l’unico rimedio al non deperimento totale ed al successivo intervento straordinario foriero di costi esorbitanti sia per il pubblico che per il privato.

Premesso tutto ciò, ricordavo che per varie motivazioni la ricerca filologica portata al parossismo o peggio ancora, ricerca di una nuova e “moderna” urbanistica tale da produrre guasti irreversibili quali la polverizzazione della collina Velia come mi ricordava sempre Antonio Cederna, così anche il pavimento del Colosseo fu divelto in nome di una ricerca di verità prima nel 1874 da Pietro Rosa poi successivamente nel 1938 da Luigi Cozzo riportando alla luce gli ipogei (questo in una succinta sintesi).

Gli sterri, a dire il vero, hanno avuto fasi alterne a seconda delle diverse interpretazioni e culture archeologiche che sarebbe troppo lungo e tedioso elencare, ma questo non impedì ad esempio tra il 1939 ed il 1940 di allestire passerelle provvisionali per celebrare i fasti dell’Industria italiana.

Essendo poi impossibile, per motivi oggettivi, ricorrere all’anastilosi, un ulteriore dramma (o quantomeno un acceso dibattito) si scatenerà a proposito dell’intervento che opporrà da una parte i talebani, i rigoristi dall’altra gli interventisti a qualunque costo; certamente il ripristino dell’arena dovrà denunziare la sua contemporaneità mirando alla funzionalità ed anche ad una voluta provvisionalità.

Premettendo che per fortuna non è nella nostra cultura del restauro, il falso storico, assai praticato viceversa in altri Paesi, occorrerà nel caso di adesione alla proposta Franceschini, stimolante ed in linea con la doppia identità e missione del suo Ministero, tutela dei Beni culturali e promozione del Turismo, pensare quindi a come e con quali modalità. Un concorso integrato aperto ad architetti europei cofinanziato dallo stesso attuale munifico sponsor Della Valle, oppure uno studio elaborato dalle Soprintendenze congiunte con l’apporto di studiosi e progettisti.

Il dibattito è aperto e stimolante purché non ci si trinceri dietro logiche retrive del non fare, non decidere e solo polemizzare che uguale danno hanno comportato quanto le manomissioni e il declino ed il dispregio per la bellezza.

Galleria sabauda negli uffici di Palazzo Reale: l’arte ‘salvata’ dagli sponsor

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Alcuni giorni fa è stata inaugurata la nuova sede della Galleria sabauda traslocata dalla storica Sede del Collegio dei nobili alla Manica nuova di Palazzo Reale.

palazzo-reale-torino

Varrebbe la pena di compiere una visita se non altro per l’insolito scenario urbano in cui si trova: non l’usuale monostilistica impronta del tessuto barocco ma un mix di stratificazioni unico per la città sabauda. Difatti frontalmente all’edificio ottocentesco della Manica nuova c’è il teatro romano, a fianco il Duomo rinascimentale, poco distanti presenze medievali ed attiguo il Palazzo Reale barocco, nonché due inquietanti testimonianze degli anni ’60.

Non entrando nel merito della “ristrutturazione”/riconversione dell’immobile, già sede degli uffici dello Stato sabaudo, a Museo, una similitudine, con le debite differenze stilistiche e temporali con gli Uffizi, c’è da constatare il ruolo fondamentale degli sponsor: l’apporto è stato significativo ed impegnativo come ricordava il presidente della Compagnia San Paolo, citando anche l’impegno al rinnovato Museo egizio di Torino, il secondo per importanza al mondo.

Qui si dipana subito la diatriba sui “benefattori” nei beni culturali, visti come l’unica soluzione per arginare il degrado non più arrestabile dal solo Stato. Ora, poiché i mecenati dello stampo di Gualino, a cui peraltro è dedicata un’intera sala alla Galleria sabauda, sono sempre più rari, occorrerà accontentarsi di sponsor ed investitori.

Questi ultimi sono visti con ribrezzo in quanto animati solo da motivazioni commerciali con l’unico scopo di svilire e smembrare il patrimonio culturale; certamente è successo e succederà se non c’è un controllo attento e a monte un motivato progetto di restauro. Gli sponsor anche sono visti, dai talebani della Cultura, come i perseguitori di unici biechi interessi economici quali ritorno di immagine a dispetto della sacralità del bene comune.

Ora occorre ricordare a lor signori che i mecenati ‘cosiddetti puri’ sono stati l’espressione di famiglie come i Rothschild, CarnegieGuggenheim e, per restare nell’Italia del passato, i Medici, gli Sforza e i Chigi, pertanto menti sopraffine ed estimatori d’arte ma non certo benefattori dell’umanità.

Inoltre il più recente ed attuale mecenate, tale signor Packard che non volle targa né pubblicità per Ercolano, è stato ancor più celebrato che se avesse installato megateloni pubblicitari sulle rovine. Per dirla alla Moretti “mi si nota di più se vengo, me ne sto in disparte o non vengo per niente?”.

Ogni iniziativa quindi che porti al recupero ed alla fruizione comune è quindi ben accetta, viceversa un discorso che viene poco argomentato è l’oggetto: quasi sempre monumenti già molto conosciuti o monumenti simbolo, o in posizioni strategiche, e legati molto al passato, quasi mai edifici storici, ma del Novecento anch’essi degni di memoria.

Costi a volte faraonici ed ingiustificati e scelte discutibili sulle modalità dovrebbero suscitare altrettante perplessità, per non parlare del mito del solo intervento pubblico come unica garanzia del bene comune.

L’etica pertanto dovrebbe valere anche su questi fronti: costi , tempi, metodi non perseguendo solo l’unico obiettivo del sensazionalismo, dei grandi numeri, del bene simbolo sia esso un monumento o un quadro/fenomeno mediatico.

Parafrasando la teoria sui metodi del Restauro dei primi del ‘900, cioè del caso per caso dell’architetto milanese Annoni, anche l’intervento economico privato deve essere valutato caso per caso stabilendo giusto equilibrio tra ritorni economici, fruizione comune e bellezza salvaguardata.

Viadotto Scorciavacche: i lavori pubblici crollano per mancanza di etica e qualità

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Il cedimento del viadotto Scorciavacche è paradigmatico di una confusione giuridica che non consente a capaci professionisti e adeguate imprese di costruzione di ben operare.

Mi occupo solitamente di Beni Culturali ma poiché la normativa che regolamenta la progettazione e realizzazione di un’opera pubblica è la medesima, sia essa una strada o un palazzo storico, le conseguenze, in caso di inettitudine o malaffare, sono identicamente catastrofiche.

Chi ha un po’ di anni di esperienza ricorderà e di conseguenza avrà operato per decenni attraverso i disposti del Regio Decreto 350 del 1895 valido sino alla emanazione della cosiddetta Legge Merloni del 1994, regolamentata nel 1999.

Per più di un secolo ingegneri ed architetti, uniti anche da uno stesso tariffario determinato da una splendida Legge, la 143 del 1949, hanno quindi operato con il Testo unico dei Lavori Pubblici che prevedeva con chiarezza e semplicità tutti i passaggi di una corretta progettazione, direzione lavori e collaudo. I criteri della corretta progettazione, per chi è addetto ai lavori non sono dissimili da quelli odierni, salvo le modalità ed innovazioni tecnologiche. Quello che stupisce, rileggendola, era il richiamo alla diligenza ed al risparmio, citando testualmente l’art. 2: ‘I progetti saranno sempre ispirati al concetto di soddisfare tutte le esigenze della stabilità e dell’estetica, esclusa dai medesimi, a meno che non sia stato disposto diversamente, ogni idea di lusso’.

I concetti di cura, diligenza ed attenzione vengono ripresi frequentemente come condizione essenziale del buon risultato.

Con l’entrata in vigore della citata Merloni viene sancita viceversa la rilevanza economica del soggetto operante nella progettazione, dando molto spazio alle Società d’Ingegneria e alle cordate, anche temporanee, di progettazione; con vari ed alterni passaggi e diatribe con la Corte CE si arriva al Codice dei Contratti Pubblici del 2006 e poi al suo regolamento attuativo del 2010 eliminando infine con il Decreto Bersani la Legge 143 del 1949 a favore del libero (o cosiddetto tale) mercato ed entrando di fatto nella giungla legislativa.

Con vari alibi del ce lo chiede l’Europa si sono radicati i principi non della qualità progettuale, ma del più forte economicamente, essendo stabiliti dei criteri di selezione dei candidati per partecipare alle gare di progettazione (pur se modeste) con fatturati da multinazionali obbligando così ad una corsa all’accumulo compulsivo di incarichi. Di conseguenza anche i collaudatori, scelti con lo stesso principio e quindi più accumulo di fatturati che reale competenza e preparazione, sovente emettono disinvolti quanti frettolosi certificati.

Nessuno si è mai chiesto se progettare un’opera, sia esso un ponte o il restauro di un edificio richieda tempo, impegno, fatica, aggiornamento e che non è umanamente quanto tecnicamente possibile anche se archistar o superman gestire venti o più progetti da un capo all’altro dell’Europa senza errori e omissioni?

Mentre poi pochi fortunati partecipano a gare ristrettissime e su invito, una fascia più ampia tenta la sorte come al super enalotto, cercando di mantenersi a galla, pagando tasse, cauzioni, fideiussioni, assicurazioni e offrendo alla fine ribassi inverecondi sino all’80% per aggiudicarsi il bando.

Sino a quando le Leggi non privilegeranno il criterio dell’etica, della qualità progettuale e non del fatturato dello studio e poi dell’offerta al massimo ribasso, molti errori e molti disastri ricadranno ancora sul Bel Paese devastando ancor più il territorio e la sua bellezza.

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Beni culturali: si ‘cambia verso’ per la scelta dei manager, o forse no

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Alcuni giorni fa il premier Renzi aveva ribadito da Fazio sull’onda del cambiamento il famoso “cambia verso“, che la svolta più eclatante sarebbe stata determinata dal già preannunciato bando europeo per la scelta dei direttori dei musei. In effetti era comparso sul sito Mibact (Ministero Beni Culturali e Turismo) tale bando, suscitando attese ed entusiasmo, poiché avrebbe sovvertito una tendenza di nomine bloccate, circoli di potere e staticità delle istituzioni.

Tutto ciò però è durato lo spazio di un weekend, con la nomina diretta a Direttore del complesso della Venaria Reale di Mario Turetta. ‘La Venaria non è un Museo è un Consorzio’, si giustificano all’ufficio stampa del Ministero; di altro parere alla Regione Piemonte, dove la notizia è arrivata come una doccia gelata.

“Quello che non approvo del Ministero è la procedura non in linea con i criteri di trasparenza e meritocrazia” sostiene l’assessore alla cultura Antonella Parigi, che in ogni caso ha dato l’assenso per garantire la funzionalità del complesso,tenuto conto della chiusura ad ogni trattativa. A questo punto occorre approfondire il dibattito sulle nomine che non riguarda solo i Musei, anche se questi nel nostro Paese avrebbero dovuto godere di una attenzione particolare e i responsabili selezionati con la logica del merito e del mercato. In analogia alle gare di progettazione, dove si devono cimentare professionisti da tutta Europa, scelti poi con il criterio del “massimo ribasso” (già criticato) o dell'”economicamente più vantaggioso” pur richiedendo ai candidati responsabilità pari o forse superiori alla gestione di un Museo.

Con lo stesso metodo (l’economicamente più vantaggioso) si potrebbero mettere in competizione manager di tutta Europa con esperienze analoghe, chiedendo loro i risultati raggiunti ma anche programmi per il Museo o Ente per il quale concorrono. Un equivalente della cosiddetta “relazione metodologica” ai sensi del Dpr 207/2010 che viene richiesta ai professionisti quando concorrono alle gare di progettazione, che per inciso devono anche dimostrare di essere finanziariamente, previdenzialmente e fiscalmente inappuntabili.

In sostanza dovrebbe valere il principio qualità/prezzo. Non si comprende perché illustri professionisti con ventennale carriera si debbano mettere in gioco mentre i manager pubblici debbano essere scelti su indicazioni politiche e senza limiti di spesa.

Ovviamente specificità degli Enti e dei ruoli dovrebbero comportare parametri ad hoc ma il criterio qualità/prezzo potrebbe essere la scelta più equa per garantire una gestione anche in linea con la sobrietà che i tempi impongono.

La tutela della bellezza è anche rigore, essenzialità e rispetto dei canoni e delle regole.

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Pompei, non c’è pace per l’Area archeologica vesuviana

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Firma Action Plan progetto Pompei

Dopo gli smottamenti, ora i distacchi di frammenti d’affresco nella Domus del Centenario.

Il prof. Osanna, neo Soprintendente, che pochi giorni fa aveva presentato a Torino il progetto Grande Pompei, sdrammatizza su questi ultimi episodi. Con molto entusiasmo e coraggio, aveva annunciato la svolta per via di cospicui investimenti nell’ambito di sua competenza, che è stata ampliata dall’agosto 2013 trasformando l’originale Soprintendenza archeologica di Pompei in Soprintendenza Speciale per i Beni archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia. Come se ciò non bastasse, l’area di interesse è stata estesa a ben 22 comuni vesuviani comprendendo così l’immaginifico sito di Oplontis; solo quest’ultimo costituisce di per sé un motivo di orgoglio ma anche di maggiore impegno di risorse, non essendo ancora conclusi gli scavi che potrebbero riservare sorprese portando alla luce un nucleo frazionale (come lo chiameremmo oggi) di ineguagliabile raffinatezza e moderna concezione.

Gli scavi iniziati nel Settecento, ripresi un secolo dopo e successivamente riavviati negli anni 60-70, hanno dimostrato non solo la cura dell’epoca per le residenze auliche (la cosiddetta Villa di Poppea e villa di Lucio Crasso) ma anche l’attenzione alle infrastrutture primarie e secondarie. Ci soffermiamo su Oplontis poiché l’Università del Texas sta preparando una grandiosa mostra, che si svolgerà dal 2016 sino al 2018 e che, secondo gli organizzatori, dovrebbe portare ancora più presenze di quelle che l’intero sito di Pompei riesce ora ad attrarre. Lo stesso effetto sortì l’esposizione al British Museum con pochi ma ben evidenziati reperti. Il Progetto della Soprintendenza Speciale, riferendosi ad un territorio vastissimo, risulta un’impresa tanto affascinante quanto titanica, tenuto conto di un organico non adeguato e di problematiche legate alla gestione dell’emergenza sia che si tratti di messa in sicurezza sia di gestione di nuovi lavori. Ovviamente ci auguriamo tutti che gli obiettivi siano raggiunti, certo è che ci è sembrato azzardato che il Ministero creasse un sistema così allargato ed ambizioso con compiti non chiaramente definiti. La competenza, ad esempio sui 22 comuni vesuviani, è limitata alle sole aree archeologiche, mentre abusivismo o ancor peggio piani urbanistici a volte scellerati lambiscono le stesse, senza che un coordinamento generale impedisca quelli che erano i dettami della 1497/39, cioè preservare l’intorno e non solo il bene in sé. Controlli serrati viceversa sui programmi dei cospicui fondi da Bruxelles (105 milioni da utilizzare entro il 31 dicembre 2015), pena la perenzione.

Pompei inoltre è costantemente monitorata dall’Unesco, allarmata dalla presenza diffusa di microcriminalità, dal degrado e da sequestri di cantieri. É recente il dissequestro del cosiddetto Teatro Grande, che negli intendimenti del Mibact dovrebbe risultare più attrattivo dell’Arena di Verona.

Nell’ambito del cambiamento c’è l’implementazione dei custodi (ed io aggiungo dotati si spera di buon livello di scolarizzazione e senso civico), la diffusione totale di telecamere (mi auguro tecnologicamente avanzate ma non invasive) ed in più una segnaletica adeguata e coordinata. Quest’ultimo punto è importante per guidare i visitatori ed evitare percorsi incrociati e dare un’immagine gradevole di efficienza.

Sì perché finora il sito archeologico più ambito del mondo era l’emblema dei tanti luoghi comuni che aleggiano sull’Italia: sospesa tra bellezza indiscussa ed incapacità alla tutela e valorizzazione in tutte le sue accezioni. Occorrerebbe anche ricordare alle popolazioni locali che è più dignitoso e redditizio prestare un servizio adeguato e professionale come operatore turistico addestrato per i vari servizi, piuttosto che vivere di espedienti facendo scattare l’impulso ai 3 milioni di visitatori l’anno di scappare subito.

Certo non è il solo motivo: l’inadeguatezza delle strutture alberghiere e le carenze dei servizi in generale, impediscono ad un’area di grande fascino di essere, con un Progetto mirato, un’ alternativa alla cronica disoccupazione e all’alta densità criminale.

La sommatoria dei tanti problemi della zona, il cronoprogramma capestro da rispettare, l’emergenza continua da gestire, avrebbero dovuto consigliare la chiusura del sito per un anno. Viceversa il rimbalzo, anche per Pompei, dell’effetto Expo, ha comportato il prestito di diversi reperti nel Padiglione Italia al fine di ottenere per l’estate un sperato effetto “biglietto invito” con un notevole e straordinario afflusso di visitatori in concomitanza però di cantieri in piena attività per le scadenze a pochi mesi.

Si rischia così di vanificare un ambizioso quanto decisivo Progetto di riqualificazione di tutta l’Area archeologica vesuviana, decisivo ancor più dell’Expo per la Cultura e l’immagine del paese.

Roma – Feyenoord: i tifosi vandali e i politici arroganti

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Indignazione, rabbia e disgusto. Questi sono i sentimenti che pervadono guardando le immagini di devastazione degli olandesi sui monumenti di Roma.

Scrivo appositamente olandesi e non tifosi del Feyenoord, perché così avrebbero titolato i quotidiani del paese dei tulipani se nostri tifosi avessero avuto un decimo del comportamento delinquenziale nelle loro città.

Non bastano però gli strali del sindaco Marino nella eccezionalità del disastro compiuto, poiché anche nella normalità non c’è nessun segno di controllo preventivo e repressione sui fenomeni più gravi a danno dei monumenti.
Se valesse il principio che i bivaccamenti ed il conseguente imbrattamento sono reato e non cornice del pittoresco, i cari turisti delle nazioni cosiddette civili verrebbero con altro rispetto nelle nostre città.
Fatto è che basta girare nei nostri centri storici per vedere l’atteggiamento di questi campeggiatori estemporanei, davanti agli Uffizi o in piazza della Signoria, dove ho visto ragazze stese su tappetini a spalmarsi crema solare come in spiaggia… d’altra parte, come in spiaggia, circolavano venditori ambulanti di ogni genere.

Il problema è che chi dovrebbe garantire il decoro è comandato da una classe dirigente politica che poca dimestichezza e sensibilità nutre per la Bellezza. Non dico cultura, ma neanche erudizione data dalla lettura di qualche libro e la visita a qualche museo; certo non può albergare la sensibilità in soggetti sovrastimati sia professionalmente che economicamente con i quali, dialogando, sembra di essere in un cinepanettone. Avendo sovente parlato con questa classe politica e dirigente ho avuto molte volte l’impressione (parlando di Beni Culturali ) che per loro il Rosso Fiorentino fosse un comunista toscano, Brunelleschi un assaggiatore di Brunello ed il Palazzo dei Diamanti la sede dell’associazione orafa.

D’altra parte l’arroganza del potere, anche economico, disinvoltamente esercitato non può scaturire in moti di pressione e dignità nei confronti di chi deturpa il nostro patrimonio artistico. Da una classe dirigente poi  che svende una parte della nostra storia, come nel caso del Colosseo Quadrato dell’Eur per “salvare” il groviglio inutile delle solite archistar, non c’è da aspettarsi nulla di buono.

Nulla che porti anche ad avere la forza morale di  tutelare, valorizzare e reprimere, anche duramente, chi osa devastare le nostre città.

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Amianto: gli architetti devono morire di fame o di mesotelioma?

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Esistono armi chimiche di cui nessuno parla, perché occulte o apparentemente innocue. Presenti e letali nei nostri territori, sono in molti casi attrattive con il loro inquietante fascino del luogo obsoleto e segreto poiché seminascoste da folta vegetazione, spesso ridotte a ruderi sul quale si inerpicano rampicanti e fauna selvatica. A volte più rassicuranti, ma allo stesso tempo letali, come le mine giocattolo inesplose, ugualmente pericolose per l’infanzia, perché attrattive per i bambini.

Mi riferisco alle centinaia dei siti di caserme dismesse da anni con il loro contorno di capannoni, depositi munizioni, carburanti, ex polveriere, poligoni di tiro, quasi tutti ricoperti da lastre di eternit non integre ma sconnesse e pressoché sbriciolate quindi quanto mai pericolose per la polverizzazione delle fibre e la contaminazione di tutte le aree circostanti, verde incluso. Sebbene il pericolo di tale fibra fosse noto sin dagli anni ’40, solo con la legge 257 del ’92, l’uso dell’amianto fu dichiarato fuori legge. Nel 1995 fu varata una Legge per il riconoscimento dei rischi per lavoratori che nella trasformazione, attraverso l’inalazione, rischiavano tumori, e le morti nei vari luoghi contaminati, ne sono la tragica testimonianza.

Ciononostante fu usato, pressoché in ogni contesto edilizio, come isolante, coibente ignifugo, nelle pareti e nelle tubazioni sino agli ’80, ma, se una volta incapsulato risulta meno pericoloso, intaccarne l’omogeneità è letale. Edifici dismessi con parti sconnesse e amianto polverizzato, sono stati lasciati lentamente deperire, dopo aver subito in alcuni casi occupazioni, espoliazioni e diventando un vero e proprio problema per gli amministratori locali. La maggior parte non rivestiva un interesse non dico storico/artistico ma neanche documentario anche tenuto conto della proliferazione e della ripetitività della tipologia architettonica simile in ogni parte d’Italia.

Il non recupero di edifici non integri e non significativi non deve essere intesa come un sacrilegio ma come sosteneva anche Brandi “Se l’architettura è arte, e di conseguenza l’opera architettonica è opera d’arte, il primo compito del restauratore dovrà essere quello di individuare il valore del monumento e cioè di riconoscere in esso la presenza o meno della qualità artistica”. Lungi da me nel voler affermare che solo se l’opera è monumentale dev’essere restaurata, anche solo il valore di testimonianza è sufficiente per l’apprezzamento ed il restauro, ma qui si tratta di multipli anzi di porzioni di multipli isolati dal contesto urbano. Quand’è che conviene, anzi, si deve conservare? Non è rilevante né la non monumentalità né il contesto lo sostiene una persona che veniva criticata per la furia conservatrice sempre dimostrata in ogni occasione quando ancora non era ‘di moda’.

Avendo poi il nostro territorio (ed il nostro Demanio) una quantità di castelli, fortificazioni e dimore di grande interesse ma soprattutto pezzi unici in totale abbandono, occorre considerare l’idea di una selezione. Invece per una strana circostanza del destino qualche Soprintendenza ha posto un vincolo apposito obbligando lo Stato ad intervenire con stanziamenti importanti per i lavori di restauro. Ma qui viene il bello: a parte le cifre stanziate che potevano essere dirottate per immobili di significativo interesse (e non a porzioni di capannoni anni ’50) vengono indette gare di progettazione al ribasso. La disperazione dell’intera categoria di ingegneri ed architetti dopo il famigerato Decreto Bersani è tale che diversi studi hanno partecipato non solo non chiedendo un’indennità di rischio (come era logico ritenere ) ma offrendo ribassi del 50% alla già esigua parcella.

Poiché le prestazioni richiedevano un rilievo accurato, quindi la permanenza di diversi giorni a contatto con l’eternit sbriciolato, molti professionisti si sono trovati di fronte alla drammatica scelta se morire di fame o di mesotelioma. Queste considerazioni che sembrano far trasparire un macabro sarcasmo sono invece le amare riflessioni su come il patrimonio edilizio storico, e i suoi addetti ai lavori, al di là di una cultura della conoscenza, del recupero delle unicità o di agglomerati significativi di valore storico o documentario, sia viceversa in balia di bizzarre interpretazioni della salvaguardia di ciò che è rappresentativo e unico e connotativo.

Sempre più la categoria degli architetti, anche capaci e con una storia professionale importante, non tutelati da lobby e non collusi da mafie affaristico/politiche, non collettori di tangenti, si trovano a dover lottare per briciole di lavoro disagevole e pressoché inutile per la collettività. E’ alquanto bizzarro poi che sul sito ufficiale dei bandi da alcuni mesi siano del tutto scomparsi gli incarichi se non quelli ad alto rischio come appunto quelli a stretto contatto con l’amianto. Appare del tutto evidente che sia per le opere che per la progettazione occorrerebbe privilegiare il merito e non la convenienza politica, altrimenti il Paese della bellezza diventerà il Paese della vergogna.

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Expo 2015, il riutilizzo dei padiglioni è un problema etico o estetico?

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Al di là dei disastri inconcepibili compiuti dai black bloc e di cui si parlerà ancora a lungo, dei ritardi inspiegabili, dei costi lievitati, dei presunti lavoratori in nero (ma non vogliamo assolutamente crederci per via dell’obbligatorietà delle Leggi e del Durc), delle Certificazioni di Regolare Esecuzione al posto dei collaudi (obbligatori per opere al di sopra di 1 milione di euro), della poca trasparenza sulle gare, rimane aperta la questione del “dopo che fare”.

Assodato che l’unico padiglione a non essere smantellato, sarà il Palazzo Italia, simbolo della nostra creatività, il cui involucro ricorda molto il simbolo di Beijing 2008, il cosiddetto nido d’uccello, appare del tutto evidente che la futura destinazione d’uso di una, a quel punto unica struttura immobile in un contesto desertificato, sarà un problema non trascurabile.

Nell’enfasi e nella retorica del non spreco, delle risorse da attivare, dell’equilibrio tra paesi poveri e paesi ricchi, risulta viceversa un’evidente contraddizione: lo spreco di padiglioni costruiti con gran dispendio di mezzi e materiali, il cui smaltimento comporterà tra l’altro anche un alto costo. Ipotesi del riutilizzo in altro loco di queste strutture appare del tutto impraticabile, già
un’idea del genere emerse dopo le Olimpiadi invernali di Torino 2006, per due ingombranti padiglioni sistemati in una bella piazza ottocentesca e la cui forma ricordava vagamente una delle specialità più amata dai golosi: tant’è che i torinesi, spiritosamente, li definirono subito I Gianduiotti. Una volta analizzati i costi dell’operazione, quasi un milione di euro, oltre il fatto che alcuni Comuni ritirarono la richiesta, fu deciso di lasciarli lì e diventarono per quattro anni il simbolo del degrado per poi venire del tutto distrutti.

Il lungo elenco di casi di insuccesso sul riutilizzo di strutture controverse e costose, potrebbe essere sufficiente per non organizzare più queste manifestazioni che, come già dissi sono più rappresentative dell’800 che dell’epoca di internet.

Paradossalmente i più interessanti e straordinari monumenti progettati, furono quelli di un’Expo mai inaugurata, l’E42 (l’attuale Eur), dove maestri dell’architettura, come Libera, Pagano, Piccinato, Piacentini, hanno lasciato edifici razionali (in tutti i sensi), funzionali e funzionanti ancora oggi.

Certo siamo e saremmo tutti contenti se milioni di stranieri venissero a spendere e a visitare – forse – oltre l’Expo anche Milano e le altre città italiane con l’intento di ritornarci, ma il medesimo risultato lo si poteva raggiungere utilizzando, in parte, le già costose sedi espositive esistenti e valorizzando il già costruito, mediante il riconoscimento dei centri commerciali spontanei, cioè
la naturale strutturazione in forma aggregata del complesso di attività in vie commerciali, in quartieri, in centri storici e borghi.

Sarebbe stata un’occasione per far conoscere, attraverso tappe tematiche del gusto, centri storici minori e con l’occasione recuperarli, e metterli in sicurezza, al posto di questo immenso parco giochi un po’ kitsch (ma è quasi d’obbligo negli Expo) con il suo simbolo, l’Albero della Vita, che, ricordando una palma luminosa di Abu Dhabi, rinnega la storia del design italiano nato proprio a Milano.

Dopo tanti affidamenti diretti, sarebbe auspicabile almeno una gara per l’eventuale riconversione, recupero delle strutture destinate alla rottamazione con idee per nuove destinazioni d’uso in coerenza con il tema dell’uso consapevole delle risorse, lasciando magari i ristoranti e i negozi alternativi per una Milano diversa dal solito quadrilatero della Moda e ai Navigli.

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2015 anno internazionale della Luce: l’importanza dell’illuminazione nella Villa Girasole

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Non ha avuto sinora molta risonanza la proclamazione del 2015 come anno internazionale della Luce, luce che nella sua apparente immaterialità è l’esaltazione della materia. La luce quindi elemento di vita e di bellezza, indispensabile alla natura ma anche all’architetturaArchitectura sine luce, nulla architetcura est ci ricorda Baeza ed infatti cosa sarebbe il Pantheon senza l’oculus, gli spazi interni di Carlo Scarpa senza gli squarci sapienti, o la chiesa di Osaka di Tadao Ando senza la croce di luce ricavata dal disallineamento dei pannelli?

La luce può esaltare o mortificare (nel caso dell’illuminazione artificiale) un manufatto edilizio; nelle città ad esempio i centri storici, assumerebbero ben altre suggestioni con effetti di luce adeguati, come ebbi a sostenere diversi anni fa in polemica con l’assessorato all’arredo urbano di Torino. Una sapiente illuminazione può rendere attrattivo e suggestivo anche il meno riuscito dei monumenti, come fece alcuni anni fa Storaro con il Vittoriano.

Nelle progettazioni di opere pubbliche, sopratutto nel recupero, occorrerebbe prevedere sempre un capitolo dedicato all’illuminotecnica la quale, specie da qualche anno, dopo la progressiva dismissione prima nel 2012 delle lampade ad incandescenza per poi arrivare nel 2016 a quelle alogene, diventerà sempre più una sfida progettuale impegnativa. Le direttive dell’Unione europea, imponendo, in virtù di un auspicato risparmio energetico, lampade a basso consumo ma di scarsa efficacia a definire i vuoti ed i pieni, i colori e i particolari architettonici, hanno duramente provato i cosiddetti lighting designer che devono mirare ad ottenere effetti sorprendenti con i led.

Ma la luce nell’architettura si può anche inseguire, progettando edifici con una sapiente esposizione e sapienti aperture di valorizzazione del rapporto aeroilluminante. Ancor meglio se le case addirittura ruotano come i girasoli e proprio su questo principio si basa la villa progettata negli anni ’30 da Angelo Invernizzi, a Marcellise nella campagna veronese. La villa, restaurata proprio in occasione dell’anno internazionale della Luce, è rientrata pienamente in funzione e può essere fatta ruotare a piacere con la semplice pressione di un tasto.

La descrizione ed il principio, tutto sommato semplice, ma non per questo meno efficace nell’ottica della funzionalità e razionalità dell’architettura dell’epoca, è ben descritta nel filmato dell’Istituto Luce.

Non unica nel suo genere, anche Nervi ne progettò una senza realizzarla però, la Villa di Marcellise si distingue per la grandezza, gli ingranaggi perfetti e per il rapporto vitale tra involucro edilizio e luce, antesignana dell’architettura ecosostenibile e bella. Non un’architettura aulica, non un progettista conosciutissimo, ma una poetica non scontata e non retorica, nonostante l’enfasi del resoconto dell’epoca, e che ci piace segnalare per una visita mirata. Infatti la cattura della luce ed in ogni caso l’inseguire la luce è da sempre uno dei momenti magici nel fare l’architettura

E quando un progettista mette al primo posto questo obiettivo, ha già capito molto della sua missione di dare vita all’involucro edilizio e rendere la vita più gradevole a chi la abita e a chi la guarda.

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Opere pubbliche e controlli che non ci sono: servirà il nuovo codice appalti?

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Nel disastro delle varie opere pubbliche, inutili, incompiute, esose o ancor peggio mal realizzate c’è da chiedersi chi (o addirittura se) abbia controllato. Esiste, dalla notte dei tempi, e cioè dal Regio Decreto 350 del 1895, un istituto, il collaudo, attraverso il quale dovrebbero essere effettuati tutti gli accertamenti, i saggi, le prove e le verifiche su un’opera pubblica.

Ovviamente tale istituto è stato sempre confermato, pur con piccole modifiche, nei vari testi di legislazione sugli appalti, dalla Legge Merloni ad oggi. Occorre infatti ricordare quanto sia fondamentale questo istituto tenuto conto che: “Il collaudo ha lo scopo di verificare e certificare che l’opera o il lavoro siano stati eseguiti a regola d’arte, secondo il progetto approvato e le relative prescrizioni tecniche, nonché le eventuali perizie di variante, in conformità del contratto e degli eventuali atti di sottomissione o aggiuntivi debitamente approvati. Il collaudo comprende altresì tutte le verifiche tecniche previste dalle leggi di settore”.

Ancora più delicato ed incisivo il collaudo in corso d’opera e finale esperito, specie nei restauri, quando si tratta di compiere diverse visite in cantiere durante lo svolgimento dei lavori al fine di verificare il fisiologico o patologico loro andamento. Fondamentale questa fase perché si possono individuare criticità, problematiche e porre i provvedimenti atti ad evitare anomalie e ritardi, varianti onerose, vizi laddove progettista e direzione lavori non siano intervenuti sufficientemente. Il collaudatore può e anzi deve attenersi alla “verifica della buona esecuzione di un lavoro effettuata attraverso accertamenti, saggi e riscontri che l’organo di collaudo giudica necessariù”.

Appare evidente che più frequenti e minuziose saranno le visite, più saranno concrete le possibilità di prevenire e correggere in tempo difetti ed errori e va da sé che il collaudatore dev’essere un professionista rigoroso, preparato, indipendente e non coinvolto e non colluso con stazione appaltante, impresa e quindi ancor meglio se distante dal territorio.

Viceversa il collaudo si è via via trasformato in una pratica da sbrigare al più presto, sorvolando anche su macroscopici errori, al fine ultimo del rilascio di un certificato/patentino di corretto espletamento delle opere, una specie di condono tombale per lavori mal progettati, mal diretti e mal realizzati. Questo lo si può dedurre da vari Bandi di collaudo in corso d’opera al massimo ribasso anche in zone disagiate. Basta guardare i bandi pubblicati nell’ultimo biennio affidati con il 70% di sconto.

Questo è l’ennesimo risultato del famigerato Decreto Bersani che ha ancora più evidenziato non solo la poca serietà e dignità di alcuni professionisti, ma anche l’obiettivo di molte, troppe stazioni appaltanti, di garantirsi a buon prezzo l’immunità dei propri disastri con i risultati di scuole, chiese, viadotti fatiscenti crollati dopo pochi anni dal termine lavori e con costi lievitati durante l’esecuzione degli stessi.

Il collaudatore rigoroso così come il responsabile della sicurezza, anziché essere apprezzato viene allontanato in quanto non garantisce la connivenza malavitosa tra stazione appaltante, Dl, impresa ed è del tutto evidente che un collaudatore, o un responsabile della sicurezza, deve avere la garanzia di poter operare in serenità di pensiero ed anche economica. Tutto ciò premesso, al netto viceversa di collaudi (o Dl) milionari affidati ad un ristretto giro di professionisti collusi con cricche varie, come i recenti fatti di cronache giudiziarie hanno dimostrato (basti  ricordare i più noti e recenti riferiti al Sistema Mose e Tav a Firenze), i quali benché super retribuiti, ponevano lo stesso scarsa attenzione nel seguire il mandato loro affidato.

Ritorno sull’argomento in quanto in dirittura d’arrivo il Nuovo Codice Appalti dove si accenna all’esclusione del massimo di ribasso per i servizi tecnici ed un possibile Albo dei Collaudatori e Dl da tenersi presso il Ministero delle Infrastrutture. Il principio del non conflitto d’interessi (essere controllore e controllato), della rotazione degli incarichi, della assoluta rettitudine personale e professionale degli incaricati,come parrebbe dal Nuovo Codice (c’è da stabilire quali debbano essere i requisiti di moralità), dovrebbero essere il minimo sindacale per affidamenti atti a garantire la certificazione delle nostre, ahimè disastrate, opere pubbliche.

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Musei, per i neodirettori scelta da ‘Village People’

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Franceschini-Uffizi

La reazione, in gran parte negativa(e non ancora sopita), suscitata delle recenti nomine dei Venti direttori dei Musei, evidenzia quanto grande sia il divario tra apparato ed operatori dei Beni Culturali.

Innanzitutto stupisce che tra i nominati non ci sia nessun giurista esperto in diritto dei beni culturali, nessun laureato in Economia e Gestione dei Beni Culturali, (solo uno tra i 20 oltre la laurea in Filosofia ha una specializzazione in Economia dei beni culturali), nessun architetto esperto in restauri, ma per lo più storici dell’Arte.

Perché se vanno benissimo quest’ultimi per il contenuto, occorrerebbero anche esperti per il contenitore e per la valorizzazione di entrambi.
Intrecci di competenze che regolamentano il settore avrebbero dovuto suggerire figure in grado, se non di gestire in prima persona varie incombenze, perlomeno di capire e controllare la manutenzione ordinaria e straordinaria dei contenitori, ovviamente tutti palazzi storici.

Il fatto che siano stati nominati molti stranieri aggrava ancor di più la situazione, tenuto conto della complessità di leggi, regolamenti e circolari.
I Direttori dovranno districarsi tra i vari ministeri competenti: non solo il MIBACT con le rispettive Soprintendenze (anche se è stata decretata una maggiore autonomia), ma pure il ministero delle Infrastrutture, attraverso i Provveditorati Opere pubbliche, il ministero delle Finanze, essendo per lo più i beni demaniali, poi il ministero Interni per la sicurezza, il ministero del Lavoro per trattative sindacali, e altri ancora. Come faranno gli stranieri a districarsi in questi meandri in cui a malapena un professionista italiano, con anni di esperienza alle spalle, riesce?

Invece nella logica più classica dei partiti quando scelgono i candidati per le elezioni, si è optato per l’ennesima riedizione dei Village People. Così c’è il giovane under 40, le “donne”, e gli stranieri, sull’onda del rinnovamento fine a se stesso. L’esperienza e la competenza sembra quasi siano state considerate qualità pleonastiche. I colloqui veloci con i candidati vertevano principalmente sulla scelta geografica della sede come ci ha confidato Simonetta Bonomi, già Direttore del Museo Archeologico di Reggio Calabria.

C’è da chiedersi se la stessa domanda l’abbiano posta ai tedeschi, ai canadesi o ai francesi, per lo più responsabili di soli dipartimenti all’interno di Musei o Fondazioni. L’essere straniero, giovane o donna non sono valori assoluti, come non sono un disvalore; inoltre la rimozione, o per usare un altro termine, la sostituzione, andrebbe sempre giustificata.

L’unica conferma, anzi promozione, l’ha avuta Enrica Pagella a Torino, che detiene il primato come estensione e numero dei Musei da dirigere, nel Polo Reale, dopo essere stata per 15 anni Direttore di Palazzo Madama e Borgo Medievale, di competenza comunale. Le sostituzioni viceversa, solo per l’obiettivo di un fantomatico rinnovamento, danno l’idea, così come effettuate, di una ennesima trovata mediatica fine a se stessa.
Il fatto che i Musei vadano spolverati è positivo ma occorreva valutare bene a chi affidare questo compito, l’enfasi con cui molti media hanno sottolineato la giovane età è in perfetta sintonia con l’annuncite governativa.

Un buon Museo, per funzionare bene, deve avere una gestione mirata alla soddisfazione del visitatore, quindi opere d’arte ottimamente sistemate, organizzazione di mostre tematiche di alto livello, sale sicure, buona illuminazione, servizi accessori quali book shop, caffetterie gradevoli, bagni adeguati, accessi per disabili efficienti ma non invasivi, il tutto con un risultato di ritorni economici soddisfacenti. Pertanto la domanda fondamentale da porre ai candidati era questa: cosa avete fatto nei precedenti incarichi per raggiungere questi obiettivi?

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Giubileo 2015, opere di sobrietà o di banalità?

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Ignazio Marino inaugura i cantieri per i lavori in vista del Giubileo

L’imminenza della data, 8 dicembre, non ha consentito la programmazione di grandi nuove opere per il Giubileo annunciato pochi mesi fa da papa Francesco. Tra la sorpresa generale così, il Comune di Roma, per contingenti ragioni di tempo e di risorse, ha obbligatoriamente dovuto scegliere la via della manutenzione dell’esistente.

Questo è già il primo miracolo, per chi crede nel valore salvifico di questi eventi, poiché quello che doveva e dovrebbe essere l’obiettivo minimo di una buona amministrazione di un territorio, cioè la cura costante dal degrado dovuto all’uso ed all’abuso delle città, viceversa è una chimera da noi, in special modo per Roma. Finalmente dopo anni forse si è capito che è più importante stare con i piedi saldamente per terra, curando strade, giardini, piazze, piuttosto che arrampicarsi sulle Nuvole.

La Capitale, bersaglio di ironie, lazzi, denunce più astiose che mai in questi ultimi tempi, in special modo dopo i funerali gitani, dovrebbe riscattarsi per il ruolo che detiene nel mondo, con un’immagine nuova di decoro, sobrietà, bellezza. E l’annuncio, in forma anche se vogliamo modesta da piccolo Comune (slides e Powerpoint approssimativi) dei programmi in atto, da una parte delude ma dall’altra conforta. Innanzitutto si scopre che Roma ha luoghi di pregio (ma va!?) ed in questi sarà assicurata una pulizia costante, rifiuti e cancellazione scritte, attraverso accordi tra Ama, Associazioni di via, Commercianti che hanno annunciato peraltro anche interventi in zone periferiche.

Il programma infatti prevede una distinzione tra zone di pregio (centro storico) e aree di rigenerazione urbana (periferie con presenza di edifici di culto interessati dal Giubileo).
Per il centro storico sono previsti allargamenti di marciapiede (e qui non se ne capisce il motivo) di alcune vie come nel caso di via Zanardelli con l’evidenziazione, sacrosanta e speriamo non invasiva, di alcune peculiarità come il Museo napoleonico, unico nel suo genere in Europa per l’aspetto familiare e non enfatico del generale corso, pochissimo visitato e conosciuto diversamente da altri musei e luoghi della Capitale. Il motivo costante infatti è, o perlomeno dovrebbe essere, unire il sacro ed il profano convincendo i pellegrini a diventare anche turisti colti.

In alcune vie e piazze di pregio però è anche prevista l’asfaltatura, anziché la risistemazione del porfido (come ad esempio in piazza Repubblica comunemente definita piazza Esedra), e questo è motivo di grande delusione per quell’intento di riqualificazione che il Comune promette. Lo stesso trattamento lo subiranno vie note e nate con il tipico lastricato di cubetti di leucitite come ad esempio via Nazionale, via IV Novembre e Largo Magnanapoli in virtù di una maggiore sicurezza stradale mentre sarebbe stata sufficiente una costante attenta manutenzione al fine di ovviare l’usura intensiva rimediata in questi anni con ridicole, antiestetiche e pericolose toppe di bitume.

Mi soffermo su questo aspetto perché, come già scrissi, il selciato dei nostri centri storici ed in particolare a Roma, va tutelato e restaurato al pari d’un edificio, di una fontana, di un parco perché ha pari dignità degli altri elementi che insieme ne fanno il tessuto e perché la memoria di una città non è solo verticale. Una volta garantita la compattezza e planarità, tale pavimentazione oltre la peculiarità della resistenza e salubrità assolve anche la funzione di dissuasore naturale di velocità.

Altro punto qualificante, secondo gli intenti del Comune di Roma, è quello di un controllo sistematico di fenomeni di degrado visivo, come le facciate e i tetti degli edifici deturpati da graffiti ed antenne, per questo è stato proposto un accordo con i privati al fine di agevolarli fiscalmente in caso di interventi. Viceversa per le aree o gli edifici di competenza pubblica si prevedono manutenzioni straordinarie nei percorsi di maggior transito “giubilare” ma non c’è traccia della pulizia straordinaria e definitiva delle zone adiacenti a piazza Esedra come i giardini De Nicola, sede permanente di bivacchi di roulotte e bancarelle abusive in una zona di grande visibilità in quanto baricentrica tra S. Maria degli Angeli e la Stazione Termini.

Se da una parte ci possiamo congratulare con lo sfratto dei camion bar e dei banchetti degli urtisti, non c’è traccia di una volontà alla rimozione e repressione del commercio selvaggio ed abusivo, cosicché bene il restauro del Ponte di Castel S. Angelo, ma poi dovrebbe essere consentito anche il passaggio e la visuale ora impedita da un mercato indecente di perenne ciarpame; l’annuncio di un potenziamento dei vigili potrebbe però essere un deterrente posizionandone un paio agli ingressi.

Perché il decoro è il primo ristoro e risarcimento del cittadino onesto e contribuente che ha diritto di godere della bellezza in toto e costituire l’immagine della città per i turisti/pellegrini.
Alcuni interventi poi di arredo urbano non sono supportati da indicazioni precise né tantomeno da una Commissione in grado di scegliere gli elementi più idonei con il contesto storico, soprattutto privilegiando l’utilità come i cestini (quelli già esistenti vanno benissimo ma vanno potenziati) mentre non se ne vede lo scopo di disseminare la città di inutili fioriere, quasi sempre brutti contenitori usati come poi megaposacenere e portarifiuti, sarebbe auspicabile una costante assidua cura delle alberature esistenti. Non c’è accenno ad esempio al ripristino dei cosiddetti “nasoni” le tipiche fontanelle romane che, come i turet a Torino, hanno una loro specificità, tenuto conto del valore aggiunto della gradevolezza dell’acqua di Roma, si è privilegiato viceversa l’installazione delle casette dell’Acea.

Il catalogo guida fornito poi dal Comune sugli elementi di arredo urbano consigliati sembra uscito da una catena di discount e oltre essere banali non hanno nessun richiamo identificativo particolare. I restauri annunciati della Fontana del Quirinale, dei muraglioni del Tevere e delle Sale Capitoline degli Orazi e Curiazi sono la punta di diamante della giunta Marino che include come proprio successo anche il restauro della piramide Cestia sponsorizzata interamente dal magnate giapponese Yuzo Yagi. Il quale si è dimostrato disponibile ad altre opere di mecenatismo. Certo a patto che non si rechi a piedi adesso nelle vie del centro, tenuto conto dell’attitudine maniacale alla pulizia (e relativa dura repressione) dei nipponici.

Si è stati viceversa rassicurati della non sostituzione delle targhe di vie con i numeri romani limitandosi solo alle comunicazioni al cittadino per adempimenti burocratici, ma già si immaginano i contrattempi ed equivoci. In sostanza il minimalismo di per sé è una virtù di questo programma ma dovrebbe coniugarsi con il rigore formale degli interventi e la corretta istantanea azione di controllo sul territorio; non sottovalutando e tollerando aprioristicamente azioni considerate marginali e di colore o folklore per non cadere nel pittoresco o ancor peggio nella criminale spirale gitana che tanto scalpore ha suscitato quest’estate.

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